La fascia settentrionale di Terra di Lavoro era rappresentata essenzialmente, con riferimento al territorio ciociaro, dal Cassinate e suo retroterra (Aquino, Arce, ecc.), dal Fondano (Itri, Fondi, Lenola, ecc. ), dalla Valcomino (Atina, Alvito, ecc.) e dal Sorano (Arpino, Isola, ecc.): il fatto che si trovasse alle estreme propaggini del Regno ebbe come conseguenza che essa non risentisse, in effetti, né influssi né condizionamenti veramente sensibili e determinanti: la sola presenza effettiva dello Stato era rappresentata, in ultima istanza, come soleva accadere in tali casi, dagli esattori delle tasse e dagli arruolatori di soldati. Per il resto la latitanza civile e sociale del potere centrale era generale. Come sempre, operativa ed efficiente era esclusivamente la organizzazione ecclesiastica, radicata nel territorio in maniera capillare nonché assoluta: in ogni paesino di mille abitanti, come per esempio Atina o Alvito o San Donato, era normale rinvenire almeno tre chiese con relativi parroci e curati e addetti -senza tener conto delle cappelle private o di quelle delle altre istituzioni religiose o delle vie crucis o delle edicole ed altarini o di quelle sparse nel resto del territorio- e almeno due conventi o monasteri. Ed è in realtà solo questa presenza schiacciante e predominante che condizionava in modo inappellabile e totale tutta la esistenza della popolazione, in ogni sua componente e in ogni suo momento esistenziale. I signorotti locali e i rappresentanti istituzionali completavano il quadro del potere.
Questa parte ciociara di Terra di Lavoro era dunque, ancora di più in qualche sua zona più eccentrica, terra di frontiera, agevole a divenire in realtà terra di nessuno e tale fu in verità il suo destino, da sempre, se si esclude la parentesi della industrializzazione di Sora-Isola-Arpino e lì localizzata. Veramente terra di nessuno, senza storia, senza identità culturale, senza letteratura, senza arte, affamata, miserabile, vassalla della organizzazione ecclesiastica e dei signorotti locali. Stando così le cose si può anche comprendere perché allorquando si diceva Terra di Lavoro settentrionale si pensasse immediatamente solo a Gaeta-Formia o a Caserta-S.Maria C.V. e sicuramente anche alle cittadine ai piedi del Matese, ma non certamente a questa zona settentrionale che continuò per così dire ad essere oscurata e emarginata tanto che quando si voleva accennare ad essa in qualche modo e identificarla e connotarla, si disponeva in realtà di due concetti: Terra di San Benedetto o (nel linguaggio colto ed aulico) Stato di San Germano per identificare l’Abbazia di Montecassino con tutti i possedimenti e pertinenze amministrative e poi (nel linguaggio comune) il termine ‘Abruzzi’ per circoscrivere tutto il resto. Tanto era il disinteresse! Da sempre. Altrettanto determinante è rilevare che nel Regno di Napoli medesimo tale fascia settentrionale di Terra di Lavoro rivestiva una validità geografica niente affatto univoca o ben individuata. Non si spiegherebbe altrimenti perché, per esempio, oltre a quanto surricordato, per individuare e connotare la città di Sora sul Liri e non confonderla con una località analoga in provincia di Salerno, la chiamassero appunto “Sora di Campagna”, tacitamente confermando che quella zona in cui si trovava era geograficamente “Campagna [di Roma]” e non Regno di Napoli! E quindi anche tale realtà, pur essa storica e documentata, conferma quanto poco chiara e distintiva fosse la denominazione geografica di tale propaggine estrema. E la situazione si è chiarita alquanto solamente verso la fine del 1800.
Fonti incontrovertibili e della massima affidabilità scientifica documentano il tipo di vestimento in uso in queste zone di Terra di Lavoro settentrionale, che, di conseguenza, ci inducono alla asserzione storica e scientifica qui postulata e cioè la ciociarità folklorica di Terra di Lavoro settentrionale. Iniziamo con un famoso rappresentante della Scuola Napoletana Achille Vianelli (1803-1894) il quale è documentato a San Germano/Cassino almeno tre volte. Nel Museo di Montecassino sono esposte diverse sue opere grafiche attinenti il monastero. Esposta è anche una grande tela di altissima qualità realizzata nel 1881 che raffigura l’interno sfavillante della basilica. Raffigurate sono donne in inappuntabile costume ciociaro. Un altro grande artista della Scuola Napoletana è Pasquale Mattei (1813-1879) anche lui documentato a San Germano/Cassino in più occasioni. Importantissime ai fini che qui ci interessano sono due sue opere attualmente visibili presso il Palazzo Reale a Napoli : “Fiera di San Germano in Abruzzi” e la “Processione del Corpus Domini nell’Abbazia di Montecassino”. Sono due tele rigurgitanti di uomini e donne nei loro smaglianti costumi ciociari. Si noti quella espressione ‘in Abruzzi’.
Verso la metà del secolo risiedette a Cassino due volte un noto pittore francese vissuto molti anni in Italia e cioè Ernest Hébert (1817-1908) la cui opera realizzata a San Germano/Cassino è perfino determinante nella delineazione del carattere ciociaro del costume indossato qui e dintorni. Ha realizzato non poche opere nella zona, quelle che ci interessano in particolare sono due : “Les Fiennaroles de S.Angelo près de St. Germano” e “La Fontaine de Ceprano” : le due opere illustrano una dozzina di donne nei loro sgargianti costumi e con le cioce ai piedi (entrambe nel Museo Hébert a Parigi). Dipinse anche un’opera molto significativa dal titolo “Le ragazze di Alvito”. Per rimanere nel tema di Alvito -siamo sempre in Terra di Lavoro settentrionale- citiamo un’opera di grande importanza presentata al salone d’arte di Parigi del 1863 da Jean-Baptiste detto James Bertrand (1825-1887) dal titolo ormai storico : “Donne di Alvito in pellegrinaggio a San Pietro a Roma” : uno stuolo di donne di tutte le età nei loro splendidi costumi e con le cioce ai piedi : un documento di particolare pregnanza e significato non solo per provare la fisionomia ciociara dei luoghi ma altresì per individuare le caratteristiche del costume di Alvito nella fattispecie. Torniamo di nuovo a San Germano/Cassino poiché sempre nella metà del 1800 vi soggiornò lungamente un altro importante artista francese Edmond Lebel (1834-1908) i titoli delle cui opere da sole ci informano sulla rilevanza documentaria delle sue creazioni per la connotazione ciociara del territorio in questione : “Ponte sul fiume Rapido” (Museo di Amiens in Francia), “Un voto a San Germano” (Museo del Louvre a Parigi), “La scalinata di San Benedetto” (Museo di Le Mans, Francia). Altre opere dell’artista abbiamo avuto tra le mani che pure comprovano la realtà suddetta, vale a dire la inappuntabilità descrittiva degli abiti indossati dai personaggi illustrati.
Altri artisti che hanno operato nella zona, questa volta nei territori del Fibreno e cioè Gabriele Smargiassi (1798-1882), Salvatore Fergola (1799-1874), Gonzalvo Carelli (1818-1900) ci hanno lasciato numerose opere legate a questi posti in cui la presenza umana è rappresentata solamente da individui in abiti ciociari: determinanti i numerosi disegni del Carelli realizzati in quasi tutte le località della Ciociaria borbonica da lui, tra l’altro, molto amata. Attenzione particolare meritano i ciociarelli dipinti da Michele Cammarano (1835-1920) nel suo soggiorno a Picinisco, i quali perfino declamano ed esaltano la ciociarità dei luoghi. Ma va detto che il primo artista napoletano a scoprire queste località e in particolare le due cascate di Isola del Liri immortalate in parecchie opere, fu Raffaele Carelli (1795-1864).
Tutte queste opere, che rappresentano solo una minima parte, connotano e documentano la identità ciociara folklorica dei luoghi senza che in realtà gli autori si proponessero la raffigurazione di tale componente diciamo demologica nelle loro creazioni artistiche. A differenza di uno studioso che, sempre nella medesima epoca, tale componente ciociara di questi luoghi rilevò in maniera scientifica sul campo. Stiamo parlando di Ferdinand Gregorovius (1821-1894) che è stato il primo etnografo della Ciociaria storica. Per quanto riguarda specificatamente questa zona di Terra di Lavoro facente capo a San Germano/Cassino qui, in occasione di una sua permanenza, egli riscontra la medesima situazione folklorica che aveva già rilevato nella Ciociaria pontificia: i contadini infatti -ci informa lo studioso tedesco- vestono come nella Valle del Sacco. Qui a San Germano/Cassino in occasione di una fiera, tra le numerose osservazioni registrate vi è anche quella, del più grande interesse folklorico, che le donne del luogo (le contadine) non indossavano il busto a differenza di quanto, al contrario, registrato in tutte le altre località di quel territorio da lui individuato e connotato come “Regno delle Cioce”. E in effetti tale osservazione particolare trova la sua conferma nell’opera realizzata dall’Hébert a Cassino più o meno nello stesso periodo e che abbiamo menzionato più sopra: infatti le sue “Fiennaroles” non indossano il busto. In questo contesto va detto che in effetti la mancanza del busto e non di rado anche la foggia di piegare il copricapo –ci riferiamo sempre alle donne-oltre a rappresentare una singolarità del Cassinate, queste due peculiarità si rinvengono anche, generalizzate, nelle vestiture di tutta Terra di Lavoro compresa tra Caserta e il Cassinate appunto. Le opere pittoriche degli artisti napoletani a cavallo tra settecento e ottocento che descrivono il mondo contadino confermano quanto sopra in merito al busto e al fazzoletto sulla testa, gli unici due elementi che connotano una affinità col costume ciociaro come indossato appunto in Terra di Lavoro Settentrionale.
Il Gregorovius osserva, in aggiunta, che anche nei territori solcati dal Liri e dal Melfa si indossano le cioce, realtà dunque a noi già ben nota e che la osservazione puntuale dello studioso rende inoppugnabile. Cioè, con parole ancora più semplici, lo studioso tedesco conferma che non solo il Cassinate ma anche il distretto borbonico di Sora erano folkloricamente ciociari, cioè anche questi territori fanno parte del suo “Regno delle Cioce”, pur se a Sora in particolare ritiene di evidenziare emanazioni manifeste della influenza napoletana in certi aspetti del contesto sociale.
Rimaniamo ancora nel tema solo per dovere di cronaca: in effetti la documentazione menzionata è più che sufficiente a provare quanto ragionevolmente ci si proponeva di richiamare alla memoria più che, in fondo, di dimostrare. Nel corso della seconda metà del secolo questi luoghi vengono per così dire fotografati folkloricamente da numerose altre personalità artistiche della Scuola Napoletana tra le quali ci piace ricordare l’autore di uno scintillante “Battesimo a Cassino” (presente alla Amministrazione Provinciale di Napoli) della fine del secolo che ci mette sotto gli occhi una sinfonia di colori sgargianti degli abiti di tutti quegli uomini e donne, Luigi Scorrano (1842-1924). Innumerevoli opere che illustrano il carattere ciociaro dei luoghi le dobbiamo anche ad Alfonso Simonetti (1840-1892) maggiormente che dipinse a San Germano/Cassino, a Roccasecca, a Pontecorvo, a Castrocielo, a Isola del Liri ed anche a Costantino Abbatecola (†1902) di Castrocielo. Una sinfonia strepitosa, invece, di opere ispirate a questi luoghi -e in prevalenza raccolte nei musei statali soprattutto di Copenhaghen- le dobbiamo, sempre nella medesima epoca e cioè ultimo quarto del 1800, ai cosiddetti pittori scandinavi principalmente danesi che scelsero proprio la zona del Fibreno e del Liri quale loro luogo di residenza artistica pur se il loro quartiere generale consolidato era, ed è anche oggi, un paesino della Valroveto appollaiato a mille metri di altezza, anche esso folkloricamente ciociaro.
Come ricorda il libro “CIOCIARIA SCONOSCIUTA” e come detto più sopra, nell’800 -e non solo allora- Terra di Lavoro nel suo angolo settentrionale ciociaro, era così ben individuata nella sua identità che veniva identificata normalmente come ‘Abruzzi’ e maggiormente a Napoli ! E ancora oggi tale retaggio è duro a morire poiché ogni qualvolta ci si riferisce a qualcuna delle località della zona, e non solo gli stranieri, continuano a parlare di Abruzzi ! Tra l’altro, oggi, ancora al plurale.
L’insorgere di siffatta terminologia connotativa era dovuta in effetti ad una realtà veramente inimmaginabile ma a quell’epoca (fine 1700-tutto il 1800), e fino a qualche decade fa ancora viva e sentita, e cioè la presenza dei suonatori ambulanti (zampognari e pifferari), dei venditori della planeta della fortuna, dei giocolieri con la scimmia e il pappagallo, dei suonatori coi pupazzi ai piedi, dei nomadi suonatori di organetto o di tamburello, una fantasmagoria di mestieri che gradualmente emigrò, dapprima in Francia e poi in Iscozia nelle prime decadi dell’Ottocento, quindi in tutto il mondo. Tra questi una menzione particolare meritano gli zampognari e i pifferari che all’Immacolata e a Natale e a Pasqua sciamavano letteralmente non solo a Roma e a Napoli in gran quantità per celebrare le loro novene ma in tutta Italia. Gli zampognari e i pifferari rappresentano, assieme ai personaggi in costume ciociaro, i soggetti più amati e più illustrati dell’arte europea occidentale a partire all’incirca dalla metà del 1700. Una quantità immensa di opere con questi soggetti disseminata in tutti i musei del mondo e continuamente affiorante sul mercato dell’arte. Ebbene anche gli artisti napoletani hanno continuamente e sistematicamente riprodotto questa iconografia. A tutti senza dubbio è capitata tra le mani una stampa riproducente un brigante ciociaro o uno zampognaro, con sotto la scritta: “brigante abruzzese” o “zampognaro abruzzese”. Gli artisti romani invece sotto queste medesime immagini scrivevano: “zampopgnaro abruzzese” o “zampognaro napoletano”. Epperò il luogo di provenienza e di origine di questa umanità avventurosa erano dei paessetti appollaiati sulle Mainarde della Valcomino e immediatamente al di là di quelle molisane. Nei fatti tutta questa zona appartata di Terra di Lavoro settentrionale volta a Levante era terra di nessuno. Non aveva una denominazione, un connotato distintivo, per cui la fantasia si sbizzarriva: abruzzesi, sabini, napoletani e poi calabresi, italiani, ecc.
Il concetto di ‘ciociarità’ da me impiegato ai fini della generale connotazione e individuazione di certe località -termine, ricordo, coniato da quell’ illustre ciociaro che fu Anton Giulio Bragaglia– è impiegato con un significato limitato al solo ambito del costume, che, come è ben dimostrato, risulta essere di grande soccorso nella determinazione e nella individuazione di un raggruppamento umano poiché il concetto di “costume….come segno di identità e di appartenenza a una comunità” è ormai, come detto, opinione acquisita e consolidata della dottrina del folklore.
In merito al contesto della ciociarità incontrovertibile della fascia settentrionale di Terra di Lavoro già individuata, non è senza significato ricordare, in conclusione, che anche linguisticamente, dal punto di vista dell’origine dei dialetti locali dal latino, queste zone connotano parecchie caratteristiche che si riscontrano nelle altre parti della Ciociaria, secondo le ricerche effettuate a suo tempo dall’illustre filologo e glottologo Giacomo Devoto.
Epperò è opportuno soffermarsi un istante su tale elementare presa di coscienza a proposito della ciociarità folklorica della zona poiché è invalso infatti l’abitudine -o la moda, non si capisce bene- almeno in certi ambienti di Cassino, di Arpino, di Sora, non solo di ignorare la suddetta, ripeto, senz’altro elementare realtà quanto di intraprendere ad operare perfino una distinzione tra Ciociaria e Terra di Lavoro, commettendo dunque, a mio avviso, una duplice sciocchezza : prima di tutto ritenere che “Ciociaria” sia un concetto territoriale o perfino geografico o di altre caratteristiche, con tutto quello che tale fatto comporterebbe e, secondo nonsenso, continuare a parlare di Terra di Lavoro come se fosse amministrativamente o politicamente o geograficamente connotabile, ignorando, scientemente, che Terra di Lavoro semplicemente non esiste o per lo meno esiste a livello di nostalgia, come la Dacia o la Cirenaica o Littoria, o Rodesia, ecc. Ripescare poi concetti che appartengono ormai alla storia quali ‘borbonico’ o ‘papalino’ e pretendere perfino di attualizzarli, fa precipitare il contesto, a mio avviso, nel ridicolo e quindi indegno di prenderne coscienza.
E a dispetto di tale realtà storica che non fa che confermare una precarietà connotativa dei luoghi semplicemente inconfutabile, certi personaggi pubblici di Cassino ( e in verità non solo a Cassino) e perfino qualche giornale periodico locale, continuano imperterriti e imperturbabili a seminare confusione ed a sollevare polveroni riesumando il concetto: Terra di Lavoro oppure sostenendo, per esempio, addirittura che i cassinesi fisicamente sono più simili ai formiani e ai gaetani piuttosto che ai frusinati !! E, per concludere, quando si scambiano i loro saluti scrivono: “saluti affettuosi e napoletani”!!
Michele Santulli