IL COSTUME CIOCIARO NELL’ARTE EUROPEA DEL 1800

 

Nel 1800 il costume ciociaro e la ‘pittura ciociara’ costituiscono due realtà di determinante rilevanza nell’ambito dell’arte occidentale. Per un momento il costume e la pittura ciociari sono così connessi e intimi da costituire, per così dire, una sola entità. Infatti noi possiamo parlare di costume ciociaro solo grazie alla immensa produzione pittorica ottocentesca esistente e, per converso, possiamo parlare di ‘pittura ciociara dell’800’ solo perché vi è una esuberante produzione artistica avente per tema unico il personaggio in costume ciociaro o la veduta ciociara. Nessun costume italiano, nessun costume europeo, evidenziano tale caratteristica, nemmeno lontanamente.

L’umile miserabile creatura che alla fine del 1700 incontriamo a Roma coperta veramente di stracci multicolori fatti in casa, non poteva essere titolare di un cosiddetto ‘costume’ che rappresenta sempre, stando alle regole, una confezione ben definita e chiara nei suoi elementi distintivi. Epperò ora possiamo parlare e documentariamente di ‘costume ciociaro’ perché esiste una pittura che lo ha illustrato ed eternato. Una pittura che si realizza in un arco di tempo di oltre centocinquantanni in tutto il mondo occidentale. Se non esistesse tale pittura sarebbe impossibile parlare scientificamente e folkloricamente di ‘costume ciociaro’. Quindi la sola fonte autentica ed attendibile della immagine del costume ciociaro è la documentazione pittorica setteottocentesca. Infatti se, quale ulteriore parametro comparativo o documentario, si volesse, per esempio, ricorrere a qualche esemplare di costume reale conservato in qualche famiglia dalla classica ‘nonna’ o in qualche istituzione museale, allora si scoprirebbe che pure il costume più antico conservato difficilmente risale a più di 80/100 anni indietro: di conseguenza non possiamo stabilire se detto esemplare in esposizione ha conservato o meno le sue caratteristiche, cioè se è autentico ed originale. Infatti è ben noto, dagli studiosi stessi e dai collezionisti, che detti esemplari usualmente fine ‘800 o inizi ‘900, data la deperibilità della sostanza organica senza citarne l’uso, sono stati sottoposti a tanti restauri e/o rifacimenti, il più delle volte basati sulla tradizione o sul sentito dire che detti esemplari non di rado esposti anche in musei o in qualche istituzione, ben poco hanno in comune col costume ciociaro quale immortalato invece, nella pittura europea setteottocentesca.

A questo proposito va anche rammentato che tutti i gruppi folkloristici della zona che per fortuna ancora si propongono di tenere aperta questa pagina eccezionale della storia ciociara, è doveroso che procedano alla verifica della congruenza dei loro costumi e delle loro cioce come offerti al pubblico spettacolo rispetto appunto alla iconografia quale documentata nelle opere d’arte. In questo momento è opportuno anche far presente che, salvo rare eccezioni, mancano i documenti che provano le differenze e le particolarità locali -o censuali o di stato anagrafico- dei costumi, come detti gruppi folkloristici credono di mostrare. Cioè di norma non è documentato che, per esempio, il corpetto maschile (panciotto o gilet) di Casalvieri è rosso e quello di Alvito verde o viceversa o che il grembiule o ‘zinale’ della donna di Sora è nero e quello di Arpino verde o viceversa. L’unica realtà da tenere a mente in questo caso è che il costume ciociaro al quale noi anche qui facciamo riferimento, è il costume quale veniva indossato dalla numerosa comunità ciociara di Roma dove si era delineato e circoscritto e perfezionato a seguito della lunga e costante relazione coi pittori stranieri e italiani, assumendo le caratteristiche e i particolari che la maggior parte della produzione pittorica ci restituisce e che, in aggiunta, si mantenne inalterato ed integro per un secolo e mezzo, passato indenne, volutamente, attraverso i cambiamenti e le mode che pur caratterizzarono anche Roma nel corso della seconda metà del 1800. Questo e solo questo può essere. sia scientificamente e sia documentariamente, il ‘costume ciociaro’ per antonomasia. Tutto il resto è, di conseguenza, tradizione personale e fantasia. Laddove tutti i costumi delle regioni e città e paesi italiani sono documentati e rappresentati, quando tutto va bene, da uno o due o cinque documenti pittorici storicamente attendibili, per il costume ciociaro la realtà è, al contrario, immensa.

Questo costume ciociaro di cui stiamo parlando è fondamentalmente, come detto più sopra, il costume indossato a partire dalla metà del 1700 dalla umanità che continuamente, dai nativi luoghi ciociari, i territori a Sud di Roma e quelli principalmente di Terra di Lavoro settentrionale, spinta dalla fame, dalla miseria e dall’incremento demografico, si trasferiva nel latifondo a sud di Roma principalmente oppure, in quantità maggiore, nell’urbe medesima a quell’epoca quasi svuotata della sua popolazione anche a causa della malaria imperversante. Appena gli artisti stranieri, presenti a Roma in grande quantità, da sempre, cominciarono ad individuare e mettere a fuoco nelle strade, nelle chiese, nei luoghi pubblici, questi personaggi vestiti in quel modo, con tali primitivi e primordiali calzari ai piedi che immediatamente richiamavano alla memoria immagini classiche consolidate, quei colori sgargianti dei loro abiti -in realtà stracci, come i pittori stessi li chiamavano!- specie femminili, quelle capigliature corvine, quegli occhi neri luccicanti, quelle barbe nere ispide degli uomini, quei capelli ricci e arruffati, quei sembianti, quelle carnagioni abbronzate o bruciate, personaggi che si evidenziavano vistosamente dal popolo romano vero e proprio e dal preponderante appariscente spettacolo di frati preti monache e cardinali, gli artisti stranieri (nel 1809 se ne sono contati di ufficiali, cioè regolarmente registrati 435!) si sentivano ammaliati e incantati di fronte a tale spettacolo umano smagliante di colori e di forme che non avevano nulla da invidiare, ai loro occhi, alle vestigia romane o alla architettura antica e moderna o alle opere d’arte, tanto era il richiamo alla classicità che emanava per loro dalla umanità ciociara.

Quindi abbiamo il ciociaro a Roma, affamato ed emarginato, con quella sua vestitura così precaria   e soprattutto con quei calzari così inusitati, costituiti da un pezzo di pelle di capra o di asino appoggiato sotto il piede e tenuto stabile con dei pezzi di spago allacciati al di sopra del calcagno, e, di fronte, l’artista straniero semplicemente e veramente estasiato. Tutto ciò è tutt’altro che fantasia. Bisogna cercare di immaginare il momento storico particolare di cui stiamo parlando. C’è il popolino romano smunto e emaciato per la malaria, amorfo e spento a seguito della secolare oppressione papalina ; vi è il clero che domina incontrastato il paesaggio urbano. Vi sono gli artisti numerosi che vengono tutti dai paesi al di là delle Alpi, paesi dove regnano le nebbie e le piogge, quasi sempre biondi e pallidi. Ad un tratto si parano davanti agli occhi di questi artisti la donna ciociara, l’uomo ciociaro, che nulla hanno in comune con le realtà più sopra ricordate. Quelle carni brune e levigate delle donne, quei volti glabri e bruciati degli uomini, ma soprattutto quegli abiti perfino chiassosi delle donne, quei rossi, quei verdi, quegli azzurri aggressivi, quei calzari così primordiali e rozzi eppure così classici e noti: sembrava loro di rivedere i contadini di Virgilio o di Esiodo: effettivamente uno spettacolo nuovo e sconvolgente. E inizia quindi -siamo storicamente verso il 1770/80- un rapporto sentimentale intenso e profondo che durerà ininterrottamente fino agli anni ’20 e ’40 del XX secolo, una relazione dunque che si protrae per quasi duecento anni. Un miracolo nella storia dell’arte occidentale.

E’ un momento della massima creatività. Il costume ciociaro è da questo rapporto che trae la sua fisionomia classica ed unica. Ed è, per converso, questo costume all’origine di una produzione pittorica sconfinata. Esso vive un destino singolare, connesso come è agli interessi culturali ed artistici dei pittori stranieri e italiani ed è da tale relazione che esso acquisisce e sviluppa le sue caratteristiche specifiche: le cioce innanzi tutto fatte in un certo modo e solo in quel modo, vale a dire con quelle stringhe quasi sempre di cuoio nero e lucido che si arrotolano accuratamente attorno alla gamba secondo uno schema ben consolidato e sperimentato, rivestita di pezze bianche, fino immediatamente   sotto al ginocchio e che rappresentano un ingrediente fondamentale del costume e poi la semplice camicetta bianca e il corpetto -per le donne- in quella maniera come ci dipingono i quadri, il grembiule anche esso in un certo modo e il copricapo meno tipicizzato. E per gli uomini il cappello a cono tipico ciociaro. E, si badi bene, queste caratteristiche testé individuate è a Roma che nascono, e/o si consolidano e si diffondono e in nessun’altra parte, fino a divenire un topos, un simbolo e da qui, come per osmosi, verso i luoghi di origine di questa umanità. Infatti è il continuo rapporto con gli artisti, rapporto che col tempo per molti diventa una professione vera e propria, che fa sì che l’abbigliamento assuma gradualmente o perfezioni il sembiante che ben si conosce. All’origine, quelle che chiamiamo ora cioce, non erano cioce bensì, come detto più sopra, una specie di sandalo costituito molto elementarmente e rozzamente da una pelle di animale domestico attaccata attorno al piede con pezzi di spago o altro tipo di legacci, quasi certamente senza pezze al di sotto e non si chiamavano cioce bensì diversamente poiché cioce non erano: Le cioce sono dunque una evoluzione da una calzatura primitiva ed elementare indossata dai ciociari emigrati a Roma e nel latifondo romano nella metà del 1700, certamente analoga alle calzature indossate dagli altri immigrati dalle altre regioni d’Italia -principalmente Abruzzi e Marche- comunque il segno della miseria e della fame, certamente le calzature che i diseredati e i miserabili di tutte le epoche e di tutti i tempi hanno indossato -e indossano- ai loro piedi. Diventano cioce ed assumono la fisionomia “classica ed elegante” che ben conosciamo solo attraverso il continuo rapporto con gli artisti: ci fu sicuramente uno di loro che suggerì inizialmente al suo pastore ciociaro o al suo contadino di modificare i suoi calzari in un certo modo. Si tenne cura delle pezze, del tipo di legacci, della forma della pelle vera e propria. E la cosa piacque. E si diffuse. Ed ebbe successo. Cioè sono nate quelle che nella metà del 1800 cominciarono a essere connotate col neologismo di ‘cioce’, da questa quasi simbiosi con il pittore straniero. Ed ecco perché le cioce sono uniche e tipiche solo di quella umanità che poi sarà chiamata ‘ciociari’. Ed ecco perché le incontriamo, originariamente, dapprima solo a Roma e poi da qui gradualmente si diffusero, folkloricamente, in quel territorio che sarà chiamato ‘Ciociaria’. E solo qui, perché è da qui che si erano mosse le moltitudini che avevano trovato una nuova patria nel latifondo romano a Sud della linea fluviale Tevere-Aniene e, principalmente, nella Urbe medesima. Ecco perchè le cioce non possono rinvenirsi, quale componente sociale consolidata e diffusa, in nessun’altra parte della Penisola, a differenza di quanto sostengono non pochi studiosi. Infatti quella particolare contingenza storica più sopra individuata è solo a Roma che poteva realizzarsi. L’errore degli studiosi e della critica consiste nel fatto -gravido di pesanti conseguenze per il destino del costume ciociaro- che hanno ignorato o trascurato o rimosso quella contingenza e la evoluzione che ne scaturì e, non in ultimo, i due tipi di calzari e relativa differenziazione: un conto sono dunque le cioce quali documentate nella produzione pittorica, un conto le non-cioce.

Si precisi altresì che delle suddette caratteristiche alcune sono tipiche unicamente del costume ciociaro: innanzi tutto le cioce come più sopra individuate che sono il contrassegno distintivo di questo costume e della Terra di Ciociaria, il cappello a cono appuntito, la estrema e perfino raffinata semplicità e direi spartanità dei costumi femminili, il busto delle donne, così naturale e così elementare. Non riscontri, infatti, plissettature o fusciacche o fronzoli o svolazzi o ricami o nappe o stoffe ricercate che si registrano, al contrario, in quasi tutti gli altri costumi di cui si ha documento iconografico. Non di rado, questo sì, il filo -o il doppio filo- di corallo al collo della donna che all’origine svolgeva funzioni non propriamente decorative, e gli orecchini e poi qualche piuma variopinta o un nastro colorato sui cappelli a cono appuntito degli uomini. E null’altro. E poi quei colori inimmaginabili, oggi, nel loro splendore, quei rossi fragorosi, quegli azzurri luccicanti, quei verdi che testimoniano anche la loro origine artigianale, ottenuti in casa, da essenze naturali. Una sinfonia cromatica imponente che per duecento anni ha fatto letteralmente impazzire gli artisti e gli scrittori da Hubert Robert e Giovanni Reder passando per Gregorovius e poi A..J.Strutt, Boecklin, Géricault, Fontanesi, Hayez, Chierici e centinaia e centinaia di altri per pervenire agli ultimi cantori, forse i più eccelsi di tutti: Picasso con le sue numerose opere aventi per tema la ragazza ciociara (pur se lui la chiama “l’italiana”) nel 1917, fino a De Chirico nel 1922 (pur se lui la chiama anche “la romana”) e fino a Gino Severini con le sue iconografie di donne ciociare.

Rintracciare invece il costume ciociaro originario, anzi i costumi originari delle varie cittadine ciociare, non è realizzabile poiché mancano i documenti relativi, come ricordato più sopra: ’unico fatto acquisito resta la simbiosi con l’artista straniero, il lungo e continuo rapporto che fece sì che anche il costume ad un certo punto -verso il 1840/50-   acquistò una sua peculiare fisionomia che lo caratterizzò e lo individuò definitivamente, liberandolo di tutte le eventuali peculiarità locali o anche censuali o di altra natura. E man mano che ci si avvicina alla fine del secolo le cioce ora, ai piedi degli uomini cominciano a connotare i cosiddetti ‘becchi’ e quelle delle ragazze diventano quasi delle babbucce orientali con quella punta che svetta civettuola nell’aria oppure con coccarde o annodature particolari alla punta (c’è tutta una onomastica in merito) e le stringhe magari rappresentate da fettucce colorate anziché da stringhe in cuoio, le maniche delle camice sono ormai definitivamente fisse, i rossi e blu dei corpetti sono ormai ben definiti e tutti uguali da commercio, i rossi e i blu dei grembiuli altrettanto. E progressivamente si notano ricami, ornamenti, coccarde e nastrini, ricercatezze inimmaginabili prima. Le modelle originarie di Simbruini specialmente, sono quelle che hanno per così dire modernizzato il costume ciociaro nei suoi vari elementi, quale vediamo in gran parte della produzione degli acquarellisti romani fine ottocento. Il costume ciociaro si è dunque evoluto.

Qualche nome di artista che ha dipinto la donna ciociara o l’uomo ciociaro ? Ripeto, è arduo imbattersi in un artista italiano o europeo che nell’800 non abbia dipinto un quadro ciociaro, dovrei stilare una lista di centinaia e centinaia di nomi e sicuramente se ne ometterebbero non pochi. Per dare ancora una idea della entità di tale situazione mi limito a ricordare che nella seconda metà dell’800, a partire all’incirca dal fatidico 1870, ci imbattiamo a Roma, improvvisamente, in uno stuolo incredibile di artisti anagraficamente quasi tutti romani (Tarenghi, Indoni, Navone, Barucci, Ferranti, Fortunati e poi Pio Joris, Att.Simonetti, i Bompiani, i Battaglia, i Tiratelli, i Simoni e non pochi altri) che firmano opere con grande alacrità. Quello che a noi interessa rilevare è che gran parte della loro produzione pittorica era rappresentata solamente dalla raffigurazione di ciociari e ciociare nelle situazioni e contesti più disparati. Una produzione veramente immensa soprattutto di acquarelli che, spacciati per pittura romana o pittura della campagna romana, veniva venduta ovunque agli innumerevoli pellegrini e forestieri presenti a Roma, come souvenirs del loro soggiorno romano. Una quantità enorme di quadri veicolata in tutti gli angoli della Terra. Questa degli artisti anagraficamente romani che quasi improvvisamente, tutto di un colpo, incontriamo a Roma nel medesimo momento storico, è un fatto anche esso del più grande interesse poiché non è stato ancora esaminato in che misura abbiano inciso proprio la presenza e il successo dei ciociari alla nascita improvvisa di questi pittori nello Stato della Chiesa, in cui effettivamente, in precedenza, non risulta che sia mai nato un artista. Una lista di pittori ? Si rammenti che non vi è   un museo transalpino dove non sia esposto un quadro ciociaro! In qualche città del Nord Europa i musei statali non espongono che, si può dire, opere ciociare! Tutti quelli che sono stati al Louvre o al Museo d’Orsay, tanto per citare dei nomi di grandissimi musei, avranno riconosciuto i grandi e splendidi quadri ciociari di H.Vernet, di Schnetz, di L.L .Robert, di Hébert, gli innumerevoli di Corot, quelli di Bidauld e dei Flandrin. Qualche nome fra i massimi? Hackert, Corot, Degas, Renoir, Manet, Cézanne, Van Gogh, Picasso, De Chirico, Severini, Fattori, Brijullov, Hayez, gli Induno, Boecklin, Feuerbach, Leighton, A.J.Strutt hanno dipinto ciociare e ciociari. Quale soggetto pittorico o quale costume può vantare simili firme ?

Successe anche che questi rapporti così stretti e così appassionati tra artisti e ciociari contribuirono molto non solo all’instaurarsi di relazioni più intime tra gli uni e gli altri, quanto questa relazione non poco contribuì agli ampliamenti degli orizzonti esistenziali di tanti ciociari. E quindi si svilupparono parecchie professioni connesse con il mondo dell’arte : il mercante di quadri, il modello o la modella, la ballerina, l’antiquario, perfino il pittore. Molti emigrarono all’estero, seguendo spesso gli artisti, per tutta l’Europa. Ma la tradizione più stimolante e gratificante è a Parigi che la troviamo. Nei primi anni ’20 dell’800 è da ritenere, a mio parere, che vi si registravano già le prime presenze di ciociari ma è solo nel 1846 che si è reperita la prova documentaria di tale presenza e cioè con la illustrazione in un giornale dell’epoca del primo ciociarello che con le cioce, il cappello a cono, la pelle di pecora come giacca, va suonando il suo piffero per le strade di Parigi. Ed è da questa data che inizia anche la presenza sempre più massiccia di modelle e modelli quasi tutti originari, stranamente, dai paesi della Valcomino. Anche questa una pagina incredibile, pressocché inedita, del nostro passato. Basti pensare che per Rodin per l ‘Istituto di Belle Arti di Parigi posavano decine e decine di modelli e modelle ciociari! E alla fine dell’800 troviamo istituzionalizzata a Parigi una specie di colonia di modelli e modelle, una attività iniziata attorno alla metà dell’800 e coltivata e tramandata fino a diventare una corporazione consolidata e stimata. Non pochi eredi e successori di questi modelli e modelle ancora oggi esercitano a Parigi le attività di antiquario o di mercanti di quadri iniziate dai loro avi ciociari. Ma dei modelli si parlerà in altra nota.

E tale produzione pittorica viene definita pittura romana o figure romane o pittura della campagna romana ! Il soggetto unico è sempre e solo il ciociaro. Eppure mai vedi il titolo di “Pastore ciociaro” o di “Ragazza ciociara”. Ciociaro non esiste. Ormai esso è stato romanizzato, metabolizzato da Roma.

Quindi, concludendo, allorché si parla di ciociaro, rileviamo una dicotomia, una scissione del personaggio. Sappiamo che la sua iconografia fa parte ormai della eredità culturale del mondo occidentale eppure tale pittura ciociara onnipresente in tutti i cataloghi di vendita di opere dell’800 e presente, come detto, in tutti i musei transalpini, questa pittura non ha un nome ! La involuzione è tale che, ancora oggi, questo costume quando affiora sul mercato antiquario o in qualche pubblicazione, si è arrivati addirittura al massimo del degrado dottrinario, da definirlo cioè costume….. tirolese o basco!

In effetti come localizzavano gli artisti le loro opere sia finite sia solo schizzate? Se si trovavano in località ben individuate (Tivoli, la Serpentara, Civitella, Monte Soratte, Olevano, Civita Castellana, Subiaco, Civita D’Antino, ecc.) apponevano tale nome e dubbi non sorgevano. Quando erano a Roma semplicemente di norma scrivevano “ragazza romana” o “contadina romana”. La questione si poneva al contrario quando l’artista voleva dare una denominazione all’effigiato o quando si trovava in località non individuate geograficamente. Rammentato che il termine ‘ciociaro’ era quasi sconosciuto, comunque sconosciuto a quell’epoca ai ciociari stessi, cosicché questi quando dovevano riferirsi alle loro zone di origine, rispondevano: Abruzzi alludendo alla loro provenienza da Terra di Lavoro settentrionale oppure ‘Campagna’ alludendo alla loro provenienza dallo Stato Pontificio. Il termine ‘campagna’ poteva significare all’orecchio dell’artista sia la regione geografica “Campagna di Roma” (se la conosceva!) e sia più, comunemente, il termine ‘campagna’ cioè indicare una zona coltivata e fertile. Anche questa terminologia ‘campagna’ ha contribuito non poco all’oscuramento storico del termine ‘ciociaro’ e all’affioramento di numerosi dubbi. E quindi le diciture diffuse: pastore della campagna romana, pifferaro degli Abruzzi.

Oggi, a tavolino, ogni qualvolta bisogna individuare un’opera ‘ciociara’ a fini espositivi o mercantili, la cosa diventa molto più facile, vista siffatta nebulosità scientifica sanzionata purtroppo anche dalla Storia: si parte all’arrembaggio: contadino romano, italiano, napoletano, calabrese e, quando si ha più fantasia, i poveri ciociari diventano, come detto più sopra, delle Canarie o baschi o tirolesi, perfino zingari.

Per ultimo reputo doveroso consigliare a chi ha piacere di approfondire e di ampliare i temi qui trattati sulla Ciociaria, di sfogliare il libro “CIOCIARIA SCONOSCIUTA”.

Michele Santulli

 

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