Presenti nei Musei o in strade cittadine o parchi pubblici o in alcune sedi istituzionali sono almeno quaranta le opere e i monumenti di Amleto Cataldi (1882-1930) a Roma. Non è facile imbattersi in un altro artista di siffatta importanza che registri tali risultati e che, allo stesso tempo, per ricompensa, abbia pure il prestigio di essere stato dimenticato nello stradario cittadino. Perché in effetti Amleto Cataldi è un illustre sconosciuto per il Comune di Roma, ancora oggi. E quindi invitiamo il sindaco a porre immediato rimedio a siffatta insulsaggine di fronte alla quale si trova, dell’ostracismo stradario a questo artista. In effetti Amleto Cataldi è presente al Villaggio Olimpico con quattro gruppi di sculture gigantesche, è presente davanti al Comando Generale della Guardia di Finanza a Viale XXI aprile con un monumento alto venti metri inaugurato dal re in persona l’8 dicembre 1930, è presente sul Pincio con la celebre fontana accanto alla Casina Valadier, è presente nell’Univ. la Sapienza -affianco alla facoltà di Giurisprudenza- con il monumento agli studenti caduti in guerra, è presente con un busto vicino ad Anita Garibaldi al Gianicolo e con un altro sul Pincio, è presente a Via dei Delfini sotto l’abitazione di Gigi Zanazzo, è presente al Quirinale con un arciere alto 2,40 m, è presente alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna con cinque o quattro opere -non lo sanno nemmeno loro quante sono-, con tre sculture alla Galleria Comunale di Via Crispi testé riaperta, con almeno cinque gessi ben chiusi nelle casse da oltre venti anni a Palazzo Braschi, con diversi busti alla Sapienza, a Palazzo Madama, perfino nell’atrio del Grand Hotel di Via Veneto, una delle Vittorie in bronzo sul Ponte Vitt. Em.II è sua, nei Musei Capitolini vi è un busto eccezionale del Carducci, una lapide marmorea per i Caduti nel Collegio S.Maria in Viale Manzoni e un’altra nel Convitto Nazionale a Piazza M.Grappa. Senza menzionare i monumenti pubblici nelle vicinanze quali a Grottaferrata, a Magliano Sabino, a Bassano Romano, a Capranica. Non c’è un artista a Roma presente in così tanti luoghi di prestigio con così tante opere. Eppure…
Ma in tempi così bui come il presente non vogliamo aggiungere legna sul fuoco della polemica e lasciamo che sia il Sindaco stesso, se leggerà queste note, a ravvisare la immediata corretta presa di posizione.
Qui ci vogliamo occupare di quella che da cento anni è nota come la ‘Fontana dell’Anfora’, un bronzo del Cataldi che raffigura una ragazza nuda che tiene in mano la conca ciociara da cui esce acqua. La scultura in grandezza naturale è nel centro di una vasca quasi a raso, detta a scogliera , a una diecina di metri da quel gioiello neoclassico che è la Casina Valadier, pregio e onore unici, nel luogo più pittoresco e conosciuto dell’Urbe e cioè sul Monte Pincio, con lo scenario ai piedi, unico al mondo, di Roma antica, della Roma vera.
Preliminarmente dobbiamo far presente che sono anni ormai che un bipede, a dir poco inconsulto e ‘mentalmente disarticolato’, ha spezzato volutamente il dito medio nel braccio sollevato della Ciociara, cosa che abbiamo ripetutamente denunciato, anche nelle sedi solenni e pare che l’ufficio competente stia adoperandosi ad affrontare questa disgrazia che da anni affligge e deforma la immagine della Ciociara e portarla a soluzione assieme a qualche altro piccolo accidente che il tempo e la esposizione alle intemperie ha fatto venire fuori.
Il 1912 assieme a numerose altre opere è l’anno di creazione di tale autentico capolavoro presentato il 1913 alla mostra della prima secessione romana e cioè di una ragazza dalle forme fidiache che con la conca ciociara attinge acqua ad una fonte. Tale opera grazie alla lungimiranza di qualcuno, fu acquistata dal Comune di Roma e qui collocata.
Abbiamo accennato a qualche contingenza tecnica che affligge lo stato di conservazione di quest’opera ma quella più delicata e di cui ci vogliamo occupare è la connotazione vera e propria, ormai consolidata, dell’opera e cioè la denominazione di ‘Fontana dell’anfora’ totalmente erronea e fuorviante.
Secondo qualcuno degli studiosi parrebbe che tale appellazione l’avesse voluta l’artista stesso al momento della posa in opera nel 1912/13. Affermazione più capziosa e anche offensiva di questa non poteva essere espressa sia perché Amleto Cataldi sapeva dare il giusto nome ad un contenitore tipico della sua terra di origine -doppiamente tipico perché suo padre ciociaro di Castrocielo e sua madre abbruzzese di Lanciano- e sia perché il suo rispetto e conoscenza dell’arte classica non potevano consentirgli una distorsione così grossolana. Come può Cataldi confondere -o ritenere uguali/simili/intercambiabili- una, pertanto rarissima, preziosa, anfora greca con una, diciamolo pure: modesta, volgare, tina o conca ciociara? E’ come voler paragonare le cioce con le Church! E non è che l’artista non conoscesse o sapesse che cosa significasse ciociaro. Quindi vi è stato qualche solito esperto ‘battista’ romano che ha tirato fuori dal cappello quella titolazione magniloquente -e errata- e tutti gli altri, fino ad oggi, pedissequamente, ripetuta pur sapendo, questo sì è difficilmente giustificabile, che trattasi di marchiano errore, da sempre e, ancora peggio, di inficiamento evidente della identità della immagine. In aggiunta è una stortura sotto tutto gli aspetti circoscrivere un monumento o un’opera d’arte ignorandone il protagonista! E’ come se il quadro famoso dei coniugi Arnolfini lo si definisse ‘La camera da letto’ o ‘La Venere’ di Tiziano la si chiamasse ‘donna nuda’. Fa piacere che oggi qualche rarissimo e perciò ancora più benvenuto, osservatore è pervenuto alle medesime conclusioni. Quindi abbiamo in realtà una ragazza nuda splendidamente modellata, “…..quel bel corpo femminile armoniosamente piegato nell’atto di raccogliere l’acqua da una fonte…..” in grandezza naturale che tiene in mano una tina ciociara. Per ripetere le parole di un critico del tempo: “La …[Ciociara] infatti è la presenza della beltà umana ed una bellezza che scaturisce da un gesto semplice. Poche linee bastano a ornare questa creatura perfetta; con il minimo dei semplici mezzi impiegati, lo scultore raggiunge il massimo dell’effetto. La…[Ciociara] è una scultura d’eccezione perché in essa il soggetto vive e pensa”. E, per tornare a noi, di questa denominazione è evidente un secondo errore: dei due elementi, la ragazza nuda e la conca, il buon senso vorrebbe che sia il primo ad essere determinante e caratterizzante e cioè ‘La fontana della Ciociara’ e non la tina o conca, umile e modesto utensile di lavoro, esprimendo in questo modo anche una connotazione esatta che tiene conto del significato della scultura, anche perché, in ultimo, la ciociara, nuda o vestita, ha storicamente, nella iconografia pertinente e sperimentata, per contrassegno naturale e abituale o la conocchia e il fuso o la conca o tina, oltre, naturalmente, all’abito indossato e alle cioce, come ricordano e confermano migliaia di opere pittoriche realizzate dagli artisti europei sparse nei musei: quindi una metonimia inappuntabile. E, in aggiunta, sono i critici stessi che parlano di una modella ciociara, indifferente se possa originare dalla Valcomino o dai Simbruini o dagli Ernici. Perciò tutto storicamente attendibile: l’iconografia di una ragazza della Ciociaria. Marchiano errore dunque voler addirittura identificare questo capolavoro col nome dell’anfora presunta e non della ragazza! E’ come dire: ‘La Seggiola della Madonna’ o ‘Il cardellino della Madonna’! Ma nel caso presente il soggetto è scomparso, è subentrata la fontana.
Con questa opera l’artista ha voluto sottolineare la ciociarità (termine impiegato per la prima volta da quel grande che fu Anton Giulio Bragaglia) del contesto, cosa che per quanto mi risulta, si è preoccupato di ripetere una seconda volta con una piccola portatrice d’acqua con la tina ciociara in testa presente sia nel Museo di Cagliari e sia nella Galleria Comunale di Roma. Tale aspetto fu ben visto a suo tempo anche da un critico buon conoscitore di Amleto Cataldi: “egli converte alla propria ispirazione le donne venute dalla Ciociaria e dal Napoletano” “Qui l’antico fascino greco si risveglia nei neri occhi, fra le lunghe palpebre…Ed è lo stesso fascino che emana da La…[Ciociara] ”. (F.Geraci, 1917). Negli altri casi ha quasi sempre impiegato contenitori tipici romani come per esempio nella cosiddetta ‘Portatrice d’acqua’ della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Quindi concludendo, pur se con ritardo -sono trascorsi cento anni- si riconosca e accetti la denominazione ‘La Fontana della Ciociara’: trattasi in fondo della riappropriazione di uno strappo. Anche perché, dulcis in fundo, a Roma esiste già una cosiddetta ‘Fontana dell’Anfora’, alla Piramide Cestia, sempre ammesso che anche il contenitore qui raffigurato e munito di otto beccucci a guisa di proboscidi possa essere definito ‘anfora’.
Michele Santulli