Nell’ansa del fiume Adda che si incontra col fiume Brembo in località Capriate San Gervasio in provincia di Bergamo il Signor Cristoforo Benigno Crespi, della famiglia Crespi, industriali tessili di Busto Arsizio e poi stanziati in altre città limitrofe, proprietari anche de ‘Il Corriere della Sera’, decise col proprio figlio Silvio Benigno di trasferirsi in questo luogo di campagna sul fiume Adda per costruirvi il proprio stabilimento tessile. Era il 1878. Nello squallore ideologico e sociale di cui il nostro Paese oggi è primo tristo protagonista, dove per l’industriale il punto di riferimento fondamentale esistenziale è solo e unicamente il proprio utile e profitto, a chiaro e palese e acclarato sfruttamento maggiore che possibile dei propri lavoratori -che, pertanto, sono i soli e unici a procurargli ricchezza e potere- in siffatto a dir poco squallore ideologico e morale è necessariamente perfino dirompente e rivoluzionario conoscere o ricordare la realtà imprenditoriale di Crespi d’Adda. Il fondatore già alla fine del 1800 iniziò a creare strutture abitative per gli operai attivi nella fabbrica. Dapprima case plurifamiliari, successivamente bifamiliari con giardino, quindi la scuola, locali ricreativi, la chiesa, lo spaccio, la piscina e bagni e docce con acqua calda, il cimitero. La volontà filantropica e umanitaria del datore di lavoro verso i propri dipendenti era tale che l’obbiettivo era quello di creare un villaggio ideale del lavoro, una società fondata sull’operosità ma all’insegna della solidarietà e dell’amore, dove il datore di lavoro dal suo castello che pur era nel villaggio, assisteva e controllava l’esistenza dei suoi dipendenti letteralmente dalla nascita alla morte, all’insegna del rispetto reciproco e della buona volontà: una esperienza se non unica certamente eccezionale, un autentico modello di città ideale. E tale fu. Quando nel corso degli anni il successo imprenditoriale raggiunse le quattromila unità di addetti, solo una piccola parte poté essere ospitata nel villaggio di Crespi d’Adda pur se la volontà e la intenzione dell’industriale Crespi -ora c’era il figlio- erano quelle di continuare con l’ampliamento dell’insediamento. Infatti furono chiamati tre architetti che dovevano continuare con l’opera e l’armonizzazione razionale e architettonica del villaggio. Furono costruite villette per gli impiegati e i dirigenti. E poi la biblioteca, l’asilo: tutte le spese scolastiche degli alunni: grembiulini, matite, quaderni, libri e quant’altro era tutto a carico della ditta! Poi la guerra, il figlio che era diventato parlamentare con incarichi statali e privati di notevole impegno, suoi interessi particolari per la ricerca e per lo studio, il fondatore che diveniva vecchio, la grande micidiale depressione del ’29, tutto congiurò a che negli anni trenta la ditta Crespi passasse la mano a nuovi proprietari. Subentrarono altre società e poi altre ancora, ci furono delle trasformazioni nel villaggio, ma anche queste nuove società non ebbero successo fino a quando tutto finì. Ma la importanza e la eccezionalità dell’insediamento di Crespi d’Adda erano tali da essere divenuto “un esempio unico del fenomeno dei villaggi operai” per cui l’UNESCO già nel 1995 lo riconobbe tra i siti del patrimonio mondiale della cultura. Un modello di villaggio operaio unico in Italia e tra i pochissimi di questo valore nell’Europa continentale pur se riservato solo a circa cinque-seicento famiglie. Da diversi anni gli abitanti rimasti di Crespi d‘Adda si sono costituiti in associazione culturale e coraggiosamente portano avanti la cura e la promozione del loro villaggio che rappresenta un luogo di alta suggestione morale e sociale e fonte di profonda ammirazione per quelli che hanno l’occasione di conoscerne l’esistenza, divenendo gradualmente anche luogo turistico. C’è ora infatti un piccolo centro di accoglienza turistico e storico portato avanti da anni in maniera pragmatica e consapevole del valore di attrattore e di richiamo dei luoghi. Oggi Crespi d’Adda specie nei giorni festivi è luogo di notevole richiamo di forestieri e durante l’anno scolaresche e soprattutto associazioni sindacali ne fanno un continuo punto di riferimento ideale e sociale.
La presenza nel villaggio operaio di Crespi d’Adda di un’opera molto significativa di Amleto Cataldi firmata al 1917 è motivo sufficiente per invocare perdono della presente lunga digressione ma l’autore -e non solo lui- considera questo luogo e questa esperienza particolarmente da additare all’attenzione dei cittadini e anche degli industriali in questo triste momento in cui i sentimenti che muovono l’azione degli odierni colleghi dei Crespi sono totalmente antitetici, cancellati e addirittura disprezzati nel segno più palese della noncuranza e del massimo egoismo: la delocalizzazione di cui fanno oggetto le loro imprese nel solo segno del profitto e nella manifesta noncuranza e palese disinteresse del destino delle maestranze senza lavoro, è la riprova di tali perverse e sciagurate iniziative. Ai Crespi padre e figlio lo Stato riconoscente conferì le massime onorificenze, qualcuna rarissima: agli attuali loro emuli delocalizzatori le onorificenze dello Stato -se lo Stato è vivo e vigile- dovrebbero essere quelle del massimo biasimo e del più chiaro pubblico vituperio, non fosse altro perché, in aggiunta a tanto altro, hanno contravvenuto, impunemente dico io, a un pilastro di civiltà della Costituzione Italiana e cioè al valore sociale primordiale dell’impresa fissato, chiarito e sancito solennemente in almeno tre articoli della Carta.
Michele Santulli