Ci siamo già soffermati sulla realtà del personaggio ciociaro nell’ambito dell’arte europea del setteottocento e altresì sulle sue traversie connotative nella Storia dell’Arte tali che ancora oggi, ogni qualvolta ci si imbatte in opere d’arte raffiguranti queste creature, le si definiscono come napoletani, romani, calabresi, campagnoli, italiani, più di tutto abruzzesi, quando non si ricorre a definizioni a dir poco bizzarre quali tirolesi, baschi, savoiardi, zingari… Periodicamente ho intenzione di ritornare su questa pagina della cultura europea sottoponendo alla attenzione del lettore alcuni aspetti della vicenda. Uno di questi, forse il più affascinante, è quello avente per fulcro il modello di artista che nelle linee generali vado ad illustrare nelle pagine seguenti.
I modelli quale stato sociale, quale professione e/o mestiere, quale stereotipo, non dunque quale prestazione avventizia o precaria o casuale, sono una pura invenzione dei ciociari nelle vie della loro permanente emigrazione. Che nella trattazione di questo tema gli studiosi e i ricercatori citino quali esempi di modelle le cosiddette cortigiane dell’epoca di Pericle e di Fidia o quelle, cortigiane o no, di Tiziano e di Raffaello o di Caravaggio, in realtà menzionano situazioni e nomi che rappresentano solo degli episodi, delle contingenze, degli accadimenti limitati e individuali, pur se affascinanti. Episodi sono anche, in generale, le modelle di Olevano o di Subiaco o di Civita d’Antino o di Cervara che gli artisti incontravano sul posto nelle loro permanenze in questi paesi. Gli esempi sono innumerevoli.
In effetti la nascita del modello quale professione, quale stato sociale, anche dunque quale atto amministrativo e burocratico, si registra esclusivamente a Roma tra i ciociari ivi immigrati, già tra la fine del 1700 e gli inizi del 1800, momento storico decisivo corrispondente all’inizio di una migrazione lenta ma costante e persistente dei ciociari di Terra di Lavoro settentrionale soprattutto, verso il latifondo romano e, ancora di più, verso la Città Eterna medesima, per fame e miseria grandi, attratti e spinti anche dalla palingenesi sociale che i nuovi padroni di Roma, i Napoleonidi, avevano messo in circolazione. Tanta era la indigenza che, per esempio, le autorità doganali pontificie di frontiera (a Castelliri, a Ceprano, a Epitaffio di Terracina)) tolleravano e consentivano che questa umanità superasse i confini senza passaporto, con un semplice lasciapassare firmato dal sindaco e, non di rado, dal solo prete, in quanto veniva equiparata alla categoria dei cosiddetti ‘bracciali’ (manovali agricoli) e ai mendicanti, cioè alle ultime categorie sociali alle quali era riconosciuto il libero transito, non potendosi aspettare da loro la spesa del rilascio di un passaporto. Oggi diremmo ‘clandestini’ o sans papiers.
A quell’epoca che coincideva con il pieno svolgimento del cosiddetto Grand Tour, vale a dire di quell’enorme -per i tempi- flusso di artisti di tutte le discipline e di tutte le provenienze che si riversò principalmente su Roma per la durata di circa un cinquantennio, avvenne che quel grande numero di artisti europei -pittori e scrittori- che con varie motivazioni sceglieva di restare nell’Urbe per tempi più lunghi, cominciarono a notare in mezzo alla folla di pellegrini, di monaci, preti, monache e cardinali e trovatelli e orfanelli che quotidianamente affollavano le vie di Roma, questa umanità venuta dal Sud abbigliata, pur se miserrimamente, con vestiti dai colori squillanti e con delle calzature ai piedi che rammentavano a questi giovani assetati di classicità, i contadini di Virgilio e di Esiodo. Ed ecco che scocca la scintilla che durerà per oltre centocinquantanni. E i pittori iniziano a ritrarre questi personaggi nei loro sfavillanti costumi. Da notare che si trattava di abiti fatti in casa, rozzamente, con materiali -canapa, lana e lino- anche prodotti e ricavati in casa, elementari, essenziali, nulla veniva acquistato perché la miseria era grande. Qualche osservatore dell’epoca e qualche artista in qualche sua lettera, scrivevano chiaramente di ‘stracci’ colorati addosso ai ciociari riferendosi ai loro abiti. Figurarsi dunque se si poteva parlare di abiti di festa e di abiti di lavoro, come fanno non pochi studiosi e ricercatori, allorché descrivono le suddette realtà. E gli elementi che li componevano erano tre o quattro, i più essenziali e perfino primitivi: il grembiule o zinale, la veste col busto, il camicione, la tovaglia in testa, l’altro grembiule posteriore pur esso -non sempre- presente. L’unica differenza che si poteva notare tra una località ed un’altra era di norma il modello di tovaglia in testa che per i ciociari originari della Valcomino e, in genere, da Terra di Lavoro settentrionale di norma era il medesimo e simile a quello indossato fino a Caserta, mentre i copricapi nello Stato della Chiesa, vedere per esempio quelli di Sonnino, ma anche quello delle ragazze dei Simbruini e di Olevano, era differente. La seconda differenza che si poteva notare consisteva nell’impiego dei colori usati per i vari elementi dell’abito che comunque non rispondeva ad alcun criterio particolare: tutto era rimesso all’arbitrio personale se non vogliamo parlare di gusto, e anche alla disponibilità e qualità nonché tipologia delle piante tintorie. Voler sostenere che lo zinale del costume di Atina come regola è rosso o quello di Sonnino marrone o quello di Arpino nero, è insostenibile e fuori della realtà storica che stiamo descrivendo e alla quale ci riferiamo. L’unico elemento distintivo che poteva rilevarsi erano semmai le sfumature cromatiche dei vari colori ottenuti: era impensabile che i rossi, i blu, i marroni, ecc. fossero uguali tra di loro, avessero cioè il medesimo timbro cromatico, la medesima tonalità! Trattandosi di tinture realizzate in casa, ben se ne comprendono le ragioni. E quindi si cerchi di immaginare siffatta incredibile gamma di colori e di tonalità e di sfumature in un pur se piccolo assembramento di ciociari dell’epoca. Un ricercatore appassionato un po’ esperto di botanica potrebbe analizzare la disponibilità di piante tintorie delle varie località e sulla scorta di tali presenze e risultanze stilare possibilmente anche una scala cromatica dei rossi, dei blu, dei verdi, ecc. individuati che si ottenevano da vari tipi di piante o di radici o di foglie. Ed ecco perché il continuo e permanente inebriamento e incantamento dei pittori al cospetto di tale impareggiabile ed unico spettacolo. E tra l’altro, la loro fatica, coi loro colori da impastare e da mescolare, per riprodurre quei cromatismi!
E di conseguenza non poche di queste creature iniziano a rendersi conto di poter guadagnare il loro sostentamento semplicemente facendosi ritrarre dai pittori. E così gradualmente l’abito si cominciò a curarlo e a mantenerlo sempre uguale, le calzature si evolsero divenendo cioce, quelli che all’inizio erano dei ritratti veri e propri e dunque documenti di un personaggio in una determinata epoca, a poco a poco cominciarono a diventare delle pose, degli atteggiamenti, persino delle ambientazioni. A Roma -incredibile che possa sembrare- già alle prime decadi del 1800 era ormai consolidata e riconosciuta la categoria delle modelle cioè di quelle ragazze ciociare, per la massima parte provenienti dai territori di Terra di Lavoro settentrionale, vale a dire -per semplificare- dai territori compresi tra il fiume Liri e il fiume Garigliano -Cassinate, Valcomino, Fondano- che ormai svolgevano solo il lavoro di modella d’artista. Si erano consolidati, come regola, dei luoghi di ritrovo, quali Piazza Montanara -davanti al Teatro di Marcello- Piazza Farnese, la Scalinata di Trinità dei Monti e Accademia di Francia, Piazza Barberini dove le modelle e i modelli si assemblavano e dove gli artisti venivano a contrattare la seduta. Quindi si trattava di centinaia di persone che svolgevano la professione di modelli! Sia precisato che una parte era rappresentata anche da persone il cui motivo di richiamo non era il costume bensì l’età o altri attributi fisici: dagli artisti accademici e neoclassici venivano richiesti personaggi con barbe lunghe per impersonare certi tipi della mitologia o della liturgia dei santi, venivano assoldati bimbi per fare i putti o gli angioletti, e del genere. Ma la stragrande maggioranza era la illustrazione del costume ciociaro e della bella modella in costume! Da notare altresì che ormai la realtà sociale che stiamo descrivendo era così consolidata e riconosciuta che le autorità ecclesiastiche, scrive qualcuno, imposero che tutte le modelle per poter esercitare la loro professione dovessero munirsi di una particolare autorizzazione. Veniva dunque riconosciuta e sancita la professione del modello come uno stato sociale, come un mestiere. Siamo intorno al 1820-25.
Delle circostanze particolari ci mettono in condizione di disporre di alcuni sprazzi di luce in questo mondo ormai lontano, ancora per la massima parte buio e inesplorato. Oggi possiamo avere i nomi e talvolta anche la immagine di celebrate modelle dell’epoca, vale a dire nelle prime due-tre decadi del 1800: abbiamo Fortunata modella molto richiesta che andò sposa al pittore inglese Charles Coleman, abbiamo Giustina sorella del celeberrimo brigante Gasparone di Sonnino, c’è Marietta, detta l’odalisca, immortalata in particolare da Corot, vi sono alcune modelle di Albano e dell’Ariccia qualcuna particolarmente famosa. Ma senza dubbio alcuno le più conosciute e le più richieste e altresì quelle a mio avviso da considerare le prime modelle professioniste della storia della pittura, vale a dire i simboli e i prototipi, che sono anche quelle per le quali l’autorità pontificia impose, per prima, il possesso di una autorizzazione specifica ad esercitare il mestiere, sono le due sorelle Teresina e Maria Grazia da Sonnino salite a Roma a seguito di alcune vicende che non è questo il luogo di ricordare. Maria Grazia il cui volto incontriamo splendidamente reso in diverse opere di Navez, di Schnetz, di L.L.Robert, di H.Vernet e di chissà quanti altri pittori, è la modella più richiesta per almeno tre decadi fino all’incirca agli anni cinquanta inoltrati. Il brigamte Pietro Masi, nel suo libro di memorie di Gasparone, scriv di lei, p.51: “…Maria Grazia était une des premières beautés de Sonnino et peut-être de toute l’Italie”. Pur se la carriera fu più breve, Teresina, si dice compagna del pittore L.L.Robert per alcuni anni, la incontriamo anche lei immortalata in alcune opere eccezionali di Navez, di Schnetz e soprattutto di L.L.Robert che ci regala anche qualche suo splendido nudo. Lunghi legami non solo artistici sono accertati anche tra Schnetz e Maria Grazia.
Intorno alla fine degli anni cinquanta fino all’incirca il 1865 la scena delle modelle a Roma è dominata -così sembra dedursi dalle attuali cognizioni in merito- da Nanna nomignolo di Anna Risi, a mio avviso originaria di Cervaro di Terra di Lavoro, dal corpo statuario e dalle chiome corvine. Ma la peculiarità delle prestazioni di Nanna erano da ricondurre in gran parte alla espressività e pregnanza del suo viso che richiamava la bellezza ideale greca e romana e quindi ben si prestava per pose in gran parte in abiti neoclassici per soprattutto i due artisti che hanno attraverso molte opere, consegnato la sua fisionomia alla storia e all’eternità e cioè Lord Frederick Leighton (1830-1896) e Anselm Feuerbach (1829-1880). Ma numerosi sono anche gli esempi e i documenti che abbiamo in costume ciociaro, tra i quali forse il più noto è la ‘Ciociara’ di Hayez che l’artista realizzò in più versioni.
E’ questa anche la data, all’incirca il 1860, che va considerata come uno spartiacque nel nostro racconto: tralasciando di precisare le conseguenze delle terribili epidemie coleriche scoppiate a Roma e nei limitrofi territori nel 1835, nel 1854-55 e nel 1867 che pur notevoli ripercussioni ebbero nell’accelerazione del movimento migratorio dei ciociari, sia a seguito delle vicende storiche in Italia che portano con sé guerre e moti rivoluzionari, sia a seguito della fine del regno borbonico nel 1860-61 che, entrambi, ebbero come conseguenza immediata grande miseria e fame per il popolo, sia qualche anno più tardi con la fine di Roma papale e relativo sconvolgimento non solo urbano, sia anche a seguito del desiderio dei modelli di tentare l’avventura di Parigi per migliorare le proprie condizioni, ecco che iniziò dunque verso il 1850 e 1860 il lento e ininterrotto movimento migratorio verso la capitale francese che terminerà, per quanto riguarda i modelli, solamente verso gli inizi del Novecento. Ed è questo periodo che coincide con la presenza a Parigi di almeno un migliaio di soggetti e poi anche, pur se in entità molto minore, a Londra, che più di tutti ci consente di seguire più da presso il fenomeno delle modelle e dei modelli ciociari nell’ambito della pittura europea dell’Ottocento. E’ in questo periodo compreso tra circa il 1870 e il 1940 che si svolge la scena dei modelli ciociari quasi tutti originari di quello scrigno di ricchezze sconosciute che è la Valle di Comino, su quel palcoscenico fantasmagorico di arte e cultura e civiltà che fu la Parigi a partire dal 1870, la fine del secondo Impero fino ai primi fuochi della seconda guerra mondiale. Di queste umili creature della Ciociaria a Parigi voglio ricordare in questa sede quell’angelo che fu Maria Pasqua, la bimba di Gallinaro, eternata nelle opere di innumerevoli pittori, dal padre letteralmente venduta a una nobildonna inglese, alla stregua di un pollo o di un agnello; quel Cesidio Pignatelli e quelle due sorelle Abbruzzesi pure di Gallinaro il cui corpo e le cui espressioni sono letteralmente eternati nel bronzo e nel marmo di Rodin; quella Carmela Caira che si ribattezzò Carmen, di Gallinaro, immortalata da Whistler e da Pascin e ancora di più in uno sfolgorante nudo da Matisse; quella Carolina Carlesimo di Casalvieri, minuta e dal corpo turgido e flessuoso come un giunco al vento, che ad un certo punto scopri in sè la vena dell’artista e divenne effettivamente una celebrata e ancor oggi acclamata e appetita pittrice con altro nome; quella Teresa Vitti pure di Casalvieri il cui corpo scultoreo ci viene ricordato in alcune acqueforti di Carl Larsson; quella Rosalia Tobia di Picinisco di cui ammiriamo le movenze e sembianze in non poche opere di Bouguereau e che è passata alla storia soprattutto grazie al piccolo ristorante da lei gestito per oltre ventanni a Montparnasse dove solevano sedere -e bere soprattutto- Utrillo, Modigliani, Picasso e tutta la crema artistica dell’epoca. A Parigi incontriamo anche un altro modello ciociaro, questa volta di Casalattico, che lo fu per almeno cinquantanni e che rivediamo, in verità ormai vecchio, in uno splendido quadro addirittura di Tamara de Lempicka. A Londra incontriamo modelli quasi tutti di Picinisco ai quali dobbiamo, incredibile che possa sembrare, le sculture pubbliche di Londra più celebrate e più conosciute a partire da quell’Eros che svetta etereo nel centro della fontana di Piccadilly Circus, dal Peter Pan che si leva nei Giardini di Kensington, da quel fenomenale Physical Energy di Hyde Park, dallo Sluggard della Tate Britain e da tante sculture nella chiesa di Westminster e nei Musei. E poi, ma certamente non per terminare, quelle che io chiamo le tre grazie di Atina per la perfezione dei loro corpi ma anche per la loro espressività e intelligenza e cioè le sorelle Anna, Maria e Giacinta Caira che si sono ricavate una luminosa nicchia nella storia della pittura europea dell’ottocento e dell’arte non solamente a seguito della loro ricca attività di modelle ma anche grazie alle loro iniziative imprenditoriali nell’ambito dell’insegnamento a Parigi, alle opere d’arte per le quali hanno posato e alle loro attività artistiche.
Parlando dei modelli ciociari va rammentato chi ne è da considerare la stella e il simbolo Agostina Segatori nata sicuramente a Roma da genitori di Subiaco nel 1841 nella loro migrazione stagionale o stanziale nella Città Eterna, come sua zia Fortunata già ricordata. Agostina è da considerare il simbolo e l’epitome della figura del modello d’artista nell’ambito della storia dell’arte occidentale e della Cultura. Essa sarà oggetto di un piccolo lavoro monografico sui modelli ciociari al quale sto lavorando da anni e ora terminato ma in questa sede non posso non far presente al mio lettore che, quando ormai a Parigi, fu modella di due opere eccezionali di Van Gogh, che posò per una trentina di quadri di Corot e in particolare per tre capolavori assoluti dei quali voglio menzionare solo ‘La Lecture Interrompue’ ‘Interruptded Reading’ al Museo di Chicago, posò per Manet, per Renoir, per Gérôme ed altri artisti. Anche Agostina una ancora oggi sconosciuta gloria della Ciociaria e dell’Italia.
La citazione di questa -solo embrionale- apoteosi del modello ciociaro e di quello della Valcomino in particolare prenderebbe ancora parecchie pagine anche a dispetto della costatazione che fino ad oggi una colpevole inerzia nonché persistente insensibilità alla realtà di chi di dovere -senza menzionarne la grave perdita di immagine di tutta la regione ciociara, e non solo ciociara, a seguito di tale mancata valorizzazione- hanno lasciato inesplorato questo mondo dei modelli prima a Roma e poi a Parigi e a Londra che enormemente di più potrebbe fornire alla Storia e all’Arte oltre che alla Ciociaria e all’Italia.Invero va detto che in questi ultimi anni, specie dagli studiosi anglosassoni, sono venute alcune opere veramente di notevole impegno e ricerca su questa pagina sconosciuta della storia dell’arte che hanno iniziato a far luce su alcuni di questi umili personaggi che, anche loro, hanno contribuito ad illuminare la ribalta scintillante ed irripetibile di Parigi fin de siècle et début de siècle. Pur avendo a che fare solamente con modelli professionisti ciociari -e a Parigi la stragrande maggioranza erano solo modeli ciociari- i suddetti studiosi nessuno sforzo intraprendono per uscire dagli schemi adusati e dalle ripetizioni e non fanno purtroppo che ribadire e far anche proprio, quanto alla connotazione e al luogo di origine dei modelli ciociari, le solite disfunzioni e errori; romani, napoletani, abruzzesi, oscuramento del solo termine plausibile.
Michele Santulli