Una realtà della Storia, come tale documentata e provata, epperò ignorata e/o accantonata, volutamente. Certo, un concetto difficile a comprendere, ma solo apparentemente.
Eppure si tocca un argomento che circoscrive il terzo momento di grandezza e di splendore della Storia della Ciociaria e allo stesso tempo, d’Europa, dopo il ruolo giocato all’epoca dei Romani e dopo l’Anagni dei Papi, periodi di gloria seguiti da lunghissimi momenti di oscurità e di decadenza. Nel corso del 1800 si registra dunque un terzo momento di apoteosi cioè quello che possiamo chiamare la ciociarizzazione di Roma. Il termine si spiega da solo. Non si spiega un altro fatto e cioè quali possono essere le motivazioni che hanno ottenuto che questa pagina gloriosa sia completamente ignorata e quasi strappata via dal libro della Storia, ancora oggi, come detto più sopra. Di più: non solo e non tanto le motivazioni di tale oscuramento ma, principalmente e soprattutto, la ignoranza, voluta o meno, del fatto medesimo. E non rilevo: solamente da parte dei Ciociari.
Roma, agli albori del 1800, subito dopo l’esperienza napoleonica, si presenta al mondo chiusa dentro le sue mura, sfolgorante di maestosi palazzi e di centinaia di splendide chiese, assediata dal deserto del latifondo che la circonda e dalle ali mefitiche e mortali della malaria, una isola tagliata fuori dal resto: il cordone ombelicale che la tiene unita al mondo esterno è, per così dire, principalmente la Via Flaminia su cui transitano i pellegrini e i visitatori massimamente dall’Europa, da sempre.
Ormai i ciociari, da cinquantanni prima in movimento e presenti già dalla fine del 1700, a Parigi, in Iscozia, a Londra, sono divenuti gradualmente parte integrante del tessuto connettivo anche della società romana per quanto riguarda certi aspetti particolari della quotidianità, specie con riferimento alle donne: le domestiche, le balie, le lavandaie, le donne di fatica, le stiratrici, le filatrici e poi quelle invece diciamo, sociali: la chiromante, la indovina, la ballerina, la fioraia, la venditrice di ortaggi, la cameriera nelle innumerevoli trattorie, la mendicante, la suonatrice di organetto, la rigattiera, la modella. Un universo colorato che ruotava attorno a Piazza di Spagna, a Piazza Fontana di Trevi, a Piazza Barberini, a Piazza Farnese, alla gloriosa e ora scomparsa Piazza Montanara.
Le cronache registrano che a quest’epoca, siamo nella prima metà del 1800, la popolazione era di poche decine di migliaia di abitanti e di questi almeno dieci mila erano ciociari. Se si riflette un istante a quante unità potesse ammontare il clero, a quante quelli che vi ruotavano attorno, a quante le famiglie nobili, che gli Ebrei chiusi nel ghetto erano 6/8.000, se si pensa a quanta parte della popolazione dipendeva sia dal clero sia dai nobili, allora si può ben comprendere che la popolazione di Roma vera e propria, quella originaria, che costituisce cioè il nucleo di una comunità, quella per intenderci descrittaci dal Pinelli, era ben poca cosa numericamente. In aggiunta il panorama, diciamo, antropologico non doveva essere molto vario con tutti quei preti e monaci e suore e orfanelli e trovatelli e novizi e chierichetti e confratelli e nobili e aristocratici, con quella popolazione tenuta sotto continuo controllo dall’occhio vigile papalino, le migliaia di poveri ebrei da secoli ghettizzati, di conseguenza la presenza di queste creature venute dal Sud si fa sempre più folta e, soprattutto, sempre più imponente: si immagini come potessero evidenziarsi questi uomini coi capelli neri, le barbe ispide, la pelle riarsa dal sole e dalle intemperie, con quei cappellacci a punta e quei calzari così strani ai piedi, quei panciotti dai colori violenti di rosso, azzurro, marrone e quelle donne in quei costumi anche dai colori sgargianti e sfavillanti perché anche essi tinti in casa con essenze naturali, quelle chiome nere che sbucano dai fazzoletti in testa, quella pelle bruna, quegli occhi neri, donne dal portamento eretto perfino altero a seguito della ancestrale abitudine di portare conche e tine e pesi e anche ceste coi figli sul capo, effettivamente questo mondo rappresentava un qualcosa di veramente nuovo e di veramente diverso su quel palcoscenico eccezionale della storia dell’umanità che era, ancora, la Roma di quegli anni.
E fu normale che gli artisti stranieri presenti a Roma da sempre, iniziassero a notare e ad ammirare, per la prima volta nella Storia, questa umanità così differente e diversa che prorompeva coi suoi colori da quella amorfa e smorta in giro e che rammentava i contadini incontrati nei poemi di Esiodo, di Virgilio, di Orazio. Li chiamavano pastore romano o ragazza romana, molti li identificavano con l’Italia stessa facendone così il costume italiano per antonomasia. A poco a poco divenne il soggetto più amato e più ricercato dei loro quadri. In effetti la ciociarizzazione di Roma trovava la sua identificazione anche sotto tre fatti storici della massima rilevanza sia nella storia italiana sia in quella occidentale e cioè: la emigrazione dai territori a Sud dell’Urbe, il successo del costume nella pittura setteottocentesca e la nascita e la diffusione della figura sociale del modello di artista che ora diventa una professione e un mestiere, per la prima volta nella vicenda umana.
Pur essendo noto e ricorrente il termine ‘ciociaro’, in realtà gli artisti stranieri lo usavano pochissimo, sicuramente a seguito della difficoltà di pronuncia: in effetti si immagini come doveva pronunciarlo, e scriverlo, un francese o un tedesco e un inglese! E invero quando provano a farlo nelle loro lettere o nei loro diari e memorie, troviamo le grafie più strane e sorprendenti. Certo è che col tempo si verificò che il popolo romano divenne il ciociaro, un processo normale e da tutti riconosciuto, senza alcun dubbio: il ciociaro era ormai un ingrediente di Roma, come il Colosseo o la Cappella Sistina, il suo abitante autentico, la sua popolazione. E questo fenomeno così significativo fu già rilevato e riconosciuto nelle alte sfere della gerarchia come fatto compiuto: infatti nel 1854 allorchè l’8 dicembre fu proclamato da Pio IX il Dogma della Immacolata Concezione, nel quadro commemorativo dell’avvenimento, oggi sempre appeso nei Musei Vaticani, la popolazione di Roma era rappresentata solo da ciociari. E sempre in quest’epoca circolava nel Piemonte una stampa in cui l’Italia, ormai unita, chiedeva al re di affrettarsi a liberare Roma e così completare la unificazione: e Roma, in questa immagine, era raffigurata da una ciociara. E allorché Roma fu ‘liberata’, perfino sulla stampa americana apparve in prima pagina una immagine in cui si vedeva l’Italia, impersonata da una nobildonna, che salutava con una mano il bersagliere liberatore e con l’altra il ciociaro abitante di Roma. E qualche anno più tardi il Carducci al cospetto della devastazione immobiliare della Roma antica che cadeva ogni giorno a pezzi sotto il piccone profanatore, non solo si scagliò con veemenza contro gli autori di tale distruzione quanto apostrofò in malo modo pure la popolazione che assisteva indifferente e ignava a tale spettacolo di annientamento: e anche per Carducci il popolo romano era rappresentato dal ciociaro che “nella folta barba passa e non guarda…”. E pochi anni fa Alberto Moravia, sempre innamorato di Roma antica, in un articolo sul ‘Corriere della Sera’ scriveva (cito a memoria) : “Roma nel 1800 rappresenta un caso unico nella storia delle grandi città poiché anziché essere stata essa stessa a condizionare e a dare la sua impronta a tutto il suo territorio circostante, come è la normalità, è stata in questo caso, al contrario, la campagna che ha imposto la propria impronta alla città!” E la campagna può essere solo ed unicamente la presenza ciociara attiva sia nell’Agro che soprattutto nell’Urbe.
Continueremo in un prossimo intervento a documentare con altri fatti la ’ciociarizzazione’ di Roma nel 1800, con l’intendimento di informare prima e di sensibilizzare dopo, tutti gli addetti ai lavori, affinché tale pagina della Storia venga liberata dalla polvere e fatta rivivere.
Michele Santulli