E’ perfino d’obbligo per me chiudere l’anno 2016 con un inno al costume ciociaro, non solo gloria della Ciociaria e dell’Italia, allo stesso tempo autentico patrimonio della umanità.
Quando si dice costume tradizionale o regionale si pensa di regola al costume scozzese, a quello tirolese, al bavarese, brettone… e quando si dice costume ciociaro la situazione diviene imbarazzante: pochi lo conoscono perché, nella generalità, di norma viene contrabbandato con altre qualificazioni: romano, napoletano, italiano, soprattutto abruzzese, calabrese, anche zingaro, e altri epiteti. Solo pochi, i cultori, sono edotti della realtà vera cioè quella illustrata in quasi tutti i musei del mondo: in effetti è questa realtà, decantata e documentata per almeno centocinquanta anni da gran parte degli artisti europei, che ci consente di pienamente conoscere e di valutare il costume ciociaro: è grazie a questa documentazione iconografica, pittura e scultura, immensa di centinaia di artisti, che è nata la configurazione, unica, del costume ciociaro: e quindi, in realtà, il più amato, il più illustrato, il più conosciuto: come detto più sopra, autentico patrimonio della umanità! Epperò il meno noto! Differente la nascita ed evoluzione degli altri abiti e costumi citati, i quali sono stati e sono tutt’ora in molta parte addirittura un ingrediente della esistenza quotidiana della comunità, simbolo della tradizione e della etnicità e della loro cultura: scarsamente documentati nelle arti decorative ma al contrario, usuale abito di ogni giorno per la quasi intera comunità, conservatisi i medesimi fino ad oggi. Altre vicende per quello che ‘diverrà’ costume ciociaro.
Si cerchino di immaginare le condizioni esistenziali dalle quali è nato, dal 1700, in Valcomino e più esattamente in certe località e frazioni sperdute sulle montagne: San Gennaro, San Giuseppe, Immoglie, Vallegrande, Cerasuolo, Cardito… luoghi magici e tragici di Alta Terra di Lavoro: oppressi dalle bocche da sfamare, una terra ingrata rocciosa e pietrosa, l’oppressione fiscale, l’arruolatore di soldati, ignorati e dimenticati da tutti, asserviti al signorotto e al prete: e inizia l’esodo, la diaspora, la liberazione, un flusso continuo verso le Paludi Pontine e il mare, verso Roma, i più intrepidi al di là delle Alpi. E cosa portavano addosso queste creature? Certamente siamo lontani dalle condizioni dei tirolesi, degli scozzesi, dei brettoni, dei bavaresi: in Valcomino si coprivano con quello che riuscivano a coltivare e a produrre in casa, i soldi per andare al negozio non esistevano, i livelli erano ben differenti: coltivavano lino e canapa e possedevano la pecora per dar loro la lana ed è con questi materiali che si confezionavano anzi cucivano in casa le vestiture: in realtà erano stracci veri e propri e così li chiamavano gli artisti ma stracci colorati e che colori! Si raccoglievano le erbe o le radici di certe piante lungo i sentieri o la fuliggine o la corteccia di certi alberi e si bollivano e si tingevano: con una peculiarità che ne rappresentò un incredibile motivo di attrazione e di successo: i colori: sgargianti, sfavillanti, nessuno uguale all’altro: rossi, verdi, marroni, neri i più comuni: ogni tonalità cromatica diversa e differente: una sinfonia. E ai piedi? La maggior parte scalzi oppure protetti a una maniera ancestrale tipica dei secoli passati, a partire dall’inizio della storia umana: un pezzo di pelle di asino o di bue sotto il piede tenuto fermo in qualche modo al calcagno con un legaccio; quando per le strade apparsi ai giovani artisti europei che da sempre affollavano Roma, fu una rivelazione, quasi un’apparizione! Quei colori accesi e smaglianti, quelle calzature, quella pelle riarsa dal sole degli uomini, i loro capelli ricci, quelli neri che sbucavano fuori dalle tovaglie e quella pelle bruna e quegli occhi neri luccicanti delle donne, facevano subito ricondurre agli antichi poemi greci e romani. E nacque l’amore, un vero e proprio amore tra questi giovani artisti provenienti dalle nebbiose e fredde regioni del Nord e questa umanità, affamata ma bruciante di vita e di colori. E i pittori iniziarono a ritrarre queste donne e questi uomini e quindi a poco a poco gli stracci iniziarono a rappresentare un mezzo di sostentamento e a un certo punto nacque perfino una professione e un mestiere, quello di modella e di modello di artista. E perciò si cominciò a curare l’abito, a migliorarlo, a ordinarlo, le calzature primitive sporche e dimesse, divennero cioce “classiche ed eleganti” uniche e tipiche del costume ciociaro ed è in questa relazione con gli artisti europei che gradualmente evolse il costume ciociaro glorioso quale in gran parte ci è stato trasmesso dagli artisti. Una genesi dunque diversa dagli altri costumi europei, meno comoda, molto più sofferta: ma la diversità maggiore è che quello ciociaro, pur se conosciuto in tutto il mondo grazie alla documentazione artistica dei pittori e scultori, anche dei massimi, ancora lo si continua a chiamare con altri nomi e in Ciociaria, grazie alle istituzioni locali che si sono alternate nel corso dei decenni e ai suoi uomini politici, non lo si conosce ancora e figurarsi se si riconosce e soprattutto si promuove e incentiva quel suo ruolo di aggregatore e di unificatore sociale del più grande significato, ora anche culturale, quale negli altri paesi succitati! Perciò emarginato e i gruppi folkloristici locali, pur meritori nelle loro intenzioni, sono ancora lontani dal solo adombrarne la originalità e le peculiarità!
Michele Santulli