Tutti conoscono Giuseppe De Santis (Fondi 1917-Roma 1997) il regista acclamato di ‘Riso Amaro’, di ‘Roma ore 11’, di ‘Non c’è pace tra gli ulivi’ e di altre celebri opere cinematografiche. Anche se vissuto e maturato nella Capitale, Giuseppe De Santis restò fedele alla sua terra d’origine e tra le numerose amicizie e frequentazioni quelle più intime furono i legami con Libero de Libero, il poeta e scrittore, e con Domenico Purificato, pittore, anche di Fondi. Frequentò il Centro Sperimentale di Cinematografia in cui docente di scenotecnica era Antonio Valente, l’insigne architetto di Sora che l’aveva realizzato e progettato e in aggiunta non poté mancare di frequentare il ‘Teatro degli Indipendenti’ di Anton Giulio Bragaglia, quel crogiuolo cosmopolita di letterati, pittori, ballerini e danzatrici, commediografi, attori, compositori. L’opera cinematografica ’Non c’è pace tra gli ulivi’ è la sola che documenta e prova le sue origini. L’ideologia marxista, la sua militanza nel Partito Comunista, hanno fornito la cornice sociale e politica a questo capolavoro: infatti la trama ne è lo sfruttamento e la prevaricazione quale conosceva tra i lavoratori della industria, qui in questa pellicola, in aggiunta, anche la violenza e la morte. Nel film la nostra attenzione si concentra sugli abiti e sulle vestiture dei contadini che si muovono nello scenario dei monti e delle campagne di Fondi, di Itri, di Sonnino, di Sperlonga, sotto lo sguardo del mare di Ulisse che si distende azzurro ai loro piedi. Ecco i piedi! E in tale momento Giuseppe de Santis ha voluto non solo rimarcare e far rimarcare la propria origine e storia di ciociaro, quanto ha voluto anche quasi commettere un atto di violenza folklorica! Infatti a tutti i contadini e a tutti i soggetti del suo film pur trovandoci oltre mezzo secolo dopo, ha fatto indossare le cioce, che qui si chiamano cioci, al maschile. Cioce evidenziate dalle pezze bianche tradizionali che proteggono e avvolgono le gambe, evidenziate anche dai correggiuoli o stringhe che le avvolgono, pur se in maniera talvolta alquanto fuori della tradizione. Certo è che tutti gli uomini indossano pantaloni fino al ginocchio completi spesso di rozze ginocchiere, il protagonista in qualche scena, forse una licenza o dimenticanza del regista, indossa anche i pantaloni lunghi fino ai piedi. Le donne indossano gli abiti della loro epoca cioè del 1950 e le cioce. Tutta la vicenda è nel segno della ‘ciociarità’ e l’ambiente pastorale e le attività connesse, pastorizia, transumanza, artigianato lattiero, ecc. confermano il contesto.
Alberto Moravia (1907-1990) conosce la Ciociaria allorché nella vicinanza di quel grande che fu Anton Giulio Bragaglia e più esattamente in quella fucina di geni e di capolavori che fu il ‘Teatro degli Indipendenti’ a Via degli Avignonesi a pochi metri dal Quirinale, più sopra ricordato. Qui le decine di scrittori, di artisti, di musicisti, nazionali e stranieri che frequentavano lo scintillante Teatro notavano quasi ogni giorno seduto a un tavolo, un giovane non ancora ventenne assorto nei suoi pensieri o intento a scrivere. Era appunto Alberto Moravia, affascinato dall’ambiente, che lavorava al suo primo romanzo ‘Gli Indifferenti’, pubblicato a 22 anni. Ne dovranno passare quasi trenta prima del capolavoro dallo strano titolo ‘La Ciociara’, in verità più che strano, ostico, sconosciuto: è come tradurre in un’altra lingua la parola whisky o cognac o pizza: impossibile, non ci sono equivalenti, perché unici e tipici, come appunto ciociaro, che evidenzia l’aggravante, in più, di essere anche arduo a pronunciare e a scrivere: ‘Two Women’, ‘Dos Mujeras’, ‘La paysanne aux pieds nus’, ‘…Und dennoch leben sie’ questi i titoli nelle lingue europee de ‘La Ciociara’ il cui successo fu tale che l’opera venne tradotta in molte lingue, perciò i titoli strani di cui sopra.
La storia ricorda che lo scrittore assieme alla moglie in piena guerra si rifugia nel Fondano in Ciociaria ed esattamente a Vallecorsa, sui monti, in una capanna di pastori. Durante la permanenza durata parecchi mesi, matura l’ispirazione del romanzo che vedrà la luce nel 1957, una gestazione dunque lunga, aggiornata alla luce degli accadimenti successivi, soprattutto con riferimento alle malefatte e alle violenze attribuite, vere o false, ai soldati nordafricani che, come si sa, sono la scena centrale del romanzo: lo stupro, davanti alla chiesa di Vallecorsa. Quel titolo dunque a seguito della esperienza a Vallecorsa, in piena Ciociaria. E oltre alla località e alla violenza subita dalle due donne madre e figlia, il titolo è sottolineato nel romanzo anche dalle calzature che lo scrittore menziona e descrive accuratamente. E Vittorio De Sica, il grande regista, che con la sua maestria contribuirà a dare lustro internazionale al racconto, anche lui, incredibile, imbevuto in qualche modo di Ciociaria perché nato e vissuto alcuni anni a Sora, in verità è attratto dagli altri elementi del romanzo più che dalle calzature che illustra e rende folcloricamente quali zampitti e non cioce. Va aggiunto che Moravia conosceva approfonditamente il contesto ciociaro e gli era ben noto il ruolo storico svolto nella intiera regione a Sud di Roma e la impronta data alla Città Eterna medesima. Michele Santulli