Ove più ove meno il nome di Vincent van Gogh è patrimonio di tutti, come pure la sua vicenda esistenziale e perciò è motivo di attenzione da parte del lettore apprenderne più da vicino un aspetto poco conosciuto: tutto è stato scritto sulla sua esistenza, sulle opere: è da dubitare che un qualche aspetto sia sfuggito agli studiosi e ai ricercatori. Le circa mille lettere conservate scritte al fratello Théo principalmente e a parenti ed amici rappresentano la fonte primaria della conoscenza del suo pensiero e della sua arte: lettere scritte indistintamente in francese, in inglese, naturalmente in olandese, a confermare una personalità non comune. Come ben si immagina, tali note epistolari sono degli sprazzi di vita reale che investono la sua attività quotidiana, la sua arte, i problemi contingenti riferiti alla produzione artistica e anche alla permanente negativa congiuntura economica personale: enormemente stimolante e fecondo il suo pensiero, le esternazioni, le letture. L’eccezionalità del personaggio scaturisce sia dal messaggio artistico sia dal contenuto delle epistole, una miniera inesauribile di concetti e di intuizioni e anche di confessioni. Eppure in questi ultimi anni gli studi e ricerche da parte degli studiosi si sono sensibilmente ridotti a seguito sicuramente di una situazione, pure essa eccezionale e fuori della tradizione: ad occuparsi criticamente dell’artista ora è chiamato unicamente il Museo Van Gogh di Amsterdam, fatto divenire il solo giudice della bontà di un’opera! Il risultato è che nessun conoscitore e cultore dell’artista si sente stimolato ad esprimersi: è un caso unico, credo, nella storia dell’arte e ciò è imputabile alle case d’aste che, attente al solo aspetto commerciale, mettono in vendita unicamente le opere dichiarate autentiche dal Museo, buone o cattive! Ma qui arrestiamo tale considerazione in quanto ci allontanerebbe dal nostro tema che pertanto è strettamente collegato a tale situazione fuori del comune e che perciò abbiamo ricordato.
Dalle lettere si evidenzia un motivo che occupa l’artista, un motivo tipico e personale, come la sua pittura pur se in realtà, come già espresso, sfuggito all’attenzione dello studioso: il tema della carrozza quale rappresentazione e personificazione della esistenza dell’uomo e il tema del cavallo che la tira. Già una esperienza da bambino lo accompagnerà per tutta la vita, quella dello zio Vincent a bordo della sua carrozza che entrava fragorosamente nel cortile della pieve di Zundert per far visita al fratello, padre dell’artista, e ne scendeva con doni e leccornie per i nipoti. Saranno le letture e le esperienze della età matura che gli apriranno orizzonti più ampi su tale argomento. In particolare è un libro; ‘Tartarino di Tarascona’ di Alphonse Daudet. In decine di lettere al fratello, ai parenti, agli amici ne raccomanda la lettura, come pure ripetutamente, specie negli ultimi quattro anni di vita, un argomento delle lettere è il cavallo: questo nobile animale è l’uomo che, come il cavallo, è obbligato a tirarsi dietro una carrozza: “i poveri cavalli di carrozza di Parigi, quali tu stesso e i poveri impressionisti nostri amici..” o “…quei nevrotici cavalli di carrozza che sono Delacroix e de Goncourt…”: la carrozza è la esistenza che ognuno deve portarsi dietro: e quella dell’artista Van Gogh non è cosa piacevole e di conseguenza sofferenze ed umiliazioni per il cavallo a essa attaccato: meglio liberarsene e tornare alle origini, “… a pascolare nei prati, liberi, spensierati…”. E naturalmente si innesta tutta una descrizione delle sue sensazioni e concezioni, nonché sofferenze e pene, che lo portano a soffermarsi continuamente sull’argomento e a definirsi un eterno viaggiatore in cerca di una destinazione felice per la sua carrozza. E una conseguenza lo colpisce che pure ritorna nelle lettere e gli rammenta la sua esistenza: il lamento della carrozza: Tartarino si trova in Algeria, a caccia, un giorno vede abbandonata sul ciglio di una strada una diligenza, vecchia e degradata sulla cui fiancata si legge ancora qualcosa che gli ricorda il suo paese d’origine, Tarascona e si avvicina: la diligenza lo riconosce e gli parla: “per anni ho fatto servizio tra Arles e Tarascona, ben curata e lucidata, quando partivo ero salutata da tutti e tirata da cavalli ben addestrati e ben curati percorrevo la distanza fino a Tarascona dove arrivavo festeggiata e salutata. Poi è arrivata la ferrovia e quindi non hanno saputo più che farne e mi hanno venduta qui nel Maghreb dove di me non hanno avuto alcuna cura, tirata da cavallucci selvaggi e nervosi che mi hanno fatto passare su ogni tipo di strada finché mi hanno ridotta in questo stato e qui abbandonata, a morire.” E la carrozza rappresenta la esistenza terribile dell’artista nel manicomio di St.Rémy, un anno di atroci sofferenze e solitudine, in compagnia di malati di mente. E adesso anche lui, povero cavallo, vuole liberarsi e si libera, della sua carrozza di sofferenza cioè del manicomio di St.Rémy e tirarne un’altra, una nuova: e invero una nuova esistenza lo aspetta, a Auvers-sur-Oise! Cioè la fine, poco più di due mesi dopo!
Michele Santulli