Il primo commento del lettore sarà di sorpresa: ma quale rapporto ci può essere tra questi due giganti dell’arte e della cultura occidentali, noti e conosciuti in tutto il mondo? In un passato intervento si è dato uno sguardo alla emigrazione napoletana e alle canzoni del distacco e dell’addio che accompagnavano gli emigranti nella loro diaspora di dolore e di sacrifici. E in effetti sono proprio la musica e il canto a connotare in maniera pressocché unica le due traumatiche migrazioni per le vie del mondo: la canzone e il costume ciociaro. Ricordate? Traduco in italiano la canzone famosa di Mario Merola: “…per noi che piangiamo il cielo di Napoli, come è amaro questo pane!”, “…comm’ è amar’ stu’ pan”!
La canzone napoletana è così amata da rendere superfluo ogni commento: il fascino e l’incantamento della Napoli di allora: quei profumi, quell’arte incredibile che veniva dissepolta, quel monte che sputava fuoco, quell’aria, quel mare, quel contesto umano, provocavano vere e proprie tempeste e sconvolgimenti negli animi dei visitatori. E, per gli abitanti, cantare era, ed è ancora, un modo di vivere la propria esistenza: la canzone rappresenta la famiglia, l’amore, la disperazione, la vendetta, l’incanto della natura e del paesaggio, la partenza…non è nata nelle accademie o nei conservatori o nelle scuole ma tra la gente comune, quasi sempre nella miseria e nella precarietà: il simbolo è a Piedigrotta, nella sua chiesetta. La canzone è un ingrediente della vita napoletana come il pane il sole l’amore la religione il mare: nulla al mondo, possiamo sostenere, è così amato e considerato come le sue canzoni: O sole mio, Era di maggio, Torna a Surriento, Funiculì Funiculà, Marechiaro, Malafemmena…per ricordare a caso, ne sono autentico patrimonio.
Non solo la bella melodia ma anche le parole e le espressioni in cui ci si imbatte: “’O sole mio sta n’front’ a te”: anche il più grande poeta non è riuscito ad esprimere nemmeno lontanamente un tale complimento ed elogio alla propria donna! Nessun poeta è mai riuscito solo a pensare che in quel mare “pure li pisc’ ci fanno l’ammore” oppure, traduco in italiano “chi dice che le stelle sono splendenti, quello non conosce questi occhi tuoi che tu hai in fronte”. Sono le parole che gli uomini e le donne della strada realmente si scambiano: sono il linguaggio di Edoardo De Filippo o di Totò e, prima di loro, di Salv. di Giacomo e di Libero Bovio e di Giov. Capurro e di Raff. Viviani… tutto sentimento e allo stesso tempo grande pragmatismo. Si ascolti: “addormentati con me sotto a questa luna/ti faccio cullare dalla sirene…/”, “ascolta che musica dolce/ fanno queste onde odorose”, “..sulla terra bagnata/ sospirano le viole..”, “per questi capelli d’oro… / un turco si farebbe cristiano…/”, “voglio fare il mestiere del sole/per poter fare quello che dico io…” E ancora: “..silenzio cantatore…”, “non ti dico parole d’amore/ma è questo mare che te le dice per me…/”, ” ..non c’è rosa più bella di te”, “ ho fatto un letto di foglie di rosa per te../”, “..o suolo beato/dove il creato volle sorridere…/”, “vorrei addormentarmi/accanto al tuo fiato…”.
La Ciociaria non ha avuto questi poeti e cantori perché la Ciociaria è ‘terrosa e terrigna’, è priva della visione dell’infinito, della poesia, dell’arte. E il costume ciociaro? Oltre alla parentela genetica e, per ripetere Pasolini, antropologica con la canzone napoletana, perché medesimo luogo di nascita, medesimo contesto sociale, storico, ha anche quella della vicenda umana vissuta: la creatura ciociara, primo tra tutti, batteva le vie del mondo ballando e cantando per le strade e per le piazze, col piffero, l’organetto, la zampogna, il tamburello: l’umanità napoletana solcava gli oceani alle parole piene di nostalgia e di rimpianto delle sue canzoni. Riconoscimenti altissimi per entrambi: il Museo e la galleria per il costume ciociaro, il teatro e le sale di concerto e la piazza per la musica napoletana, l’uno oggetto di ammirazione da parte di milioni di visitatori delle pinacoteche del pianeta, l’altra sulla bocca di mezzo mondo. Come i massimi artisti da sempre hanno interpretato la canzone napoletana dagli incredibili Gennaro Pasquariello e Elvira Donnarumma degli inizi, per arrivare a Enrico Caruso e a Mario Lanza, a Beniamino Gigli, perfino a Elvis Presley che ne diede una interpretazione memorabile, senza menzionare i tenori di oggi, così anche il costume ciociaro ha avuto tra le centinaia e centinaia di cantori anche i massimi quali Manet, Corot, Cézanne, Degas, Van Gogh, Picasso per arrivare a Gino Severini che ne è stato il cigno, dopo centocinquantanni. La loro storia ha avuto esiti diversi: l’epoca del costume ciociaro si è conclusa perché conclusi ne sono stati i presupposti: resta vivo e attuale sulle pareti delle gallerie d’arte del pianeta, laddove la canzone napoletana conserva ancora presentemente la sua identità e il suo incanto originari: i linguaggi sono stati differenti: l’uno il pennello, l’altro le corde vocali: il palcoscenico di entrambi: le vie del mondo, l’esito finale il medesimo: un successo universale eterno.
Michele Santulli